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Bianco Borgogna

La Borgogna d’ampio respiro va in scena questa sera al Sommelier Social Club di Nerviano. Cinque vini selezionati per rappresentare le proprie zone di elezione, i cinque terroir che compongono il mosaico della Grande Bourgogne, spesso confusa con la sola esile striscia della Côte d’Or. Chablis, Côte de Nuitse Côte de Beaune, Côte Chalonnaise, Maconnais: ogni terra il proprio alfiere per raccontare le diverse geografie e le diverse ampelografie, di fama mondiale quanto – più spesso di quanto si creda – misconosciute o addirittura ignorate.

Le strutture dei vini, la matrice comune, la storia della Borgogna o delle singole realtà: tutto gioca nel render complicato stilare un ordine, perché sempre si vorrebbe lasciare il vino migliore per ultimo… ma quando l’ottimo è la media?

In barba ad ogni convenzione accademica, la serata non procede per vendemmie successive, né per gradi alcol ascendenti: Borgogna, culla delle AOC, ci dà l’estro di incedere per denominazione crescente. Regionale, Village, Premier Cru: ecco la parata dei protagonisti.

BOURGOGNE BLANC AUX AVOINES 2013

Domaine Jean Fournier

Una frusta fatta di ardesia acuminata. Se il buongiorno si vede dal mattino, qui la faccenda si fa subito molto spessa e ce ne andremo a casa con la lingua a pezzettini… Ho pensato, appena assaggiato un sorso del dirompente Pinot Blanc – con un saldo di Pinot Beurot – del giovine Laurent, attuale conduttore del Domaine Jean Fournier.

Una staffilata minerale, si diceva, che mette subito le carte in tavola riguardo la matrice da considerare quando si parla di Borgogna e, specialmente, di bianchi di Borgogna. Un naso che non ammette dubbi sulla provenienza, tutto dedicato al sasso, alle schegge di lavagna, al piretro finanche, con quella salva di petardi che ci si porterà avanti fino a fine serata, almeno un paio d’ore dopo. La bocca segue con medesima cadenza e non lascia scampo: il sale è ovunque e scalda e riempie di sapori amari che rimandano al tostato delle fave di cacao. Un finale lunghissimo, più sottile, sempre sulla scia minerale e sapida.

BOUZERON 2013

Domaine A. et P. De Villaine

Un momento di tregua. A voler contrastare la veemente vitalità giovanile di Laurent Fournier, ecco che i signori De Villaine – aristocrazia vitivinicola delle più ammirevoli al mondo – ci concedono quasi il lusso di un salotto d’epoca, con il loro Bouzeron. Rese per ettaro ridotte all’osso per un vino che nasce da uve poste in altura lungo i pendii e che beneficia in questo modo di una particolare concentrazione aromatica, inusuale e anzi rara per l’Aligoté.

Un naso calmo, morbido, giocato su delicate note di polpa gialla sopra un impianto iodato che non ci vuole far dimenticare la matrice marina anche di questo angolo borgognone nascosto.

Il sorso scalda la bocca, in modo misurato e rapido, la proverbiale acidità delle uve è presente in maniera gentile e la sapidità del terroir sostiene bene la rotondità importante di tutto l’impianto. Davvero un calice molto equilibrato, saporito e dal finale piuttosto persistente, sui toni lievi del frutto e di piccoli fiori gialli.

VIRÉ-CLESSÉ QUINTAINE 2015

Guillemot-Michel

Alfieri di una agricoltura che non sia altro che natura, Pierrette, Marc e Sophie distillano un nettare che è la quintessenza della spontaneità: il calice che avrei di certo indicato dovendo puntare il dito sul vino più “naturale” – o come diavolo lo si voglia in ogni modo chiamare, in questi tempi di comunicazioni impazzite – tra quelli in degustazione.

Da questo assaggio entriamo nelle vigne di Chardonnay. Con passo lento, per non perderci nulla della bellezza: che è tanta, in questo vino. Il sostrato comune alla Borgogna è subito lì a raccontarci del mare, delle rocce: un naso pieno e piuttosto contenuto, non ha gli slanci pirotecnici di Fournier, né le sedute morbide di De Villaine, quanto un equilibrio nuovo fatto di calore, che rimanda alla campagna fiorita di selvatici e alla sabbia, e di freddo, che rimanda al mondo minerale di sotto. Il sorso sembra essere più denso, con una complessità mirabile in cui è difficile distinguere tratti di natura che non siano il terroir puro e semplice: sa di tante cose, Quintaine, ma sa solo del posto da cui arriva.

CHABLIS 1ER CRU BUTTEAUX 2014

Domaine Pattes Loup

Altissima l’aspettativa, quando la posta in gioco è Chablis. Per quanto mi riguarda, assolutamente mantenuta. Un altro giovane di idee rampanti, di mano sapiente, di occhio comprensivo e riconoscente: Thomas Pico ha convertito il padre alla biodinamica e noi appassionati ad una nuova fede nello Chablis.

Il portone è pressoché sprangato. Naso ritroso, quasi troppo introverso per poter dire alcunché: c’è bisogno di pazienza, null’altro, perché la caratura è indubbia e non dobbiamo pensare al vino con i tempi cui siamo abituati a pensare alle connessioni social… Eccola, infine, la matrice che emerge, sottotraccia come un magma bollente al riparo di una lastra impenetrabile: lì dentro c’è il minerale grezzo, c’è il terroir che fa sentire le sue vampate di scisto. Un sorso, infine. Che bordata! La bocca non ha nulla di timido a dichiararsi caldissima, acida e salina, in una esplosione che scalda ben oltre l’alcol contenuto nel vino. L’attacco è sorprendente quanto repentino, per lasciare spazio al riconoscimento delle diverse componenti: l’acidità pungente sui bordi; il sale minerale che grippa sul palato coi suoi sentori di tostato, di cacao sbriciolato; la struttura che crea una qual minima rotondità dove poter assaporare la polpa di qualche frutto immaginifico.

Quale discrepanza incredibile tra olfatto e gusto, che ci racconta del mondo sotterraneo che si è creato nelle epoche geologiche con lo schiacciamento del fondale e l’evaporazione del mare, e del rivolgimento successivo della crosta terrestre, quando i fossili delle conchiglie sono tornati in superficie a dar dimora a queste viti.

PULIGNY-MONTRACHET 1ER CRU LA GARENNE 2011

Domaine Larue

Quando c’è da chiedere permesso, si chiede permesso, non c’è altro. Avvicinarsi allo smeraldo del Montrachet è sempre causa di certa emozione e, sebbene guardato da certa distanza, la sua luce verde irraggia di magia anche l’opera di Denis, Bruno e Didier Larue, una famiglia dedita alla propria terra d’elezione.

Chardonnay, non c’è dubbio. Chardonnay borgognone, ancora meno. Inutile sforzarsi di indagare e spulciare e utilizzare una lente d’ingrandimento maggiore: una volta individuati questi due capisaldi, quello che il naso rileva è il legame inscindibile tra il terreno e il bicchiere, l’uva come veicolo di terroir e non come frutto. Si torna all’inizio – con i richiami lampanti alla matrice minerale che sottende tutte le degustazioni – verso il primo calice assaggiato: ma con quanta grazia maggiore, con quanto equilibrio sottile e perfetto. La pietra bagnata, quel delicatissimo tostato da caramello di bella pasticceria e un accenno appena di lattico, forse prodromo di una più marcata e voluttuosa burrosità degli anni a venire.

Il sorso è proprio quello Chardonnay, fatto di eleganza e finezza, con rimandi assolutamente corrispondenti a quanto esposto dal naso: bocca sorpresa da bella acidità, poi scaldata dalla struttura del vino, quindi pulsante di sapidità espressa e, infine, accarezzata da un velo morbido di setosità, di crema di latte.

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