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Voillot amarcord

Domaine Joseph Voillot, Volnay

Quelle erano davvero quel che si dice delle mani grandi. Afferravano la bottiglia dal centro, senza guanti bianchi, senza nessuna leziosa leggiadria. Coprivano tutta l’etichetta. Il vino era versato in certi piccoli bicchieri, dei calici in effetti, con piede, stelo e tutto, ma talmente minuscoli da figurar bene al tè delle bambole. Nessun riguardo all’apparenza, nessun indulgere a raffinatezze stereotipate. Guardavo quell’uomo che ci aveva accolto oltre il cancello nei suoi pantaloni da lavoro e con quella felpa nera impolverata, gli scarponi sformati e infangati. Pensavo fosse un essere sorto dalla terra, con le sue grosse mani capaci di manovrare un trattore e legare teneri germogli, la sua stazza importante per apparire gioviale e incutere rispetto. Quello che faceva era lavorare la terra e produrre vino, al diavolo tutto il resto.

Capitavo alla dimora di Jean-Pierre Charlot un pomeriggio di novembre. Il nutrito gruppetto cui mi accompagnavo era partito da Milano proprio quel giorno e lì, il Domaine Voillot, sostava per la prima tappa di quella gita turistico-didattica. Il viaggio in Borgogna, il premio tanto ambìto al termine d’un percorso entusiasmante. Andavamo a vedere i luoghi, a incontrare le persone. A mangiare e bere, certo, a fare festa dentro un castello come bambini che entrano nelle loro favole preferite. Ricordo il tempo sospeso, le mattine terse e i pomeriggi che veniva buio presto, mentre ci affaccendavamo veloci avanti e indietro fra cantine e ristoranti. Il senso di tutto stava nell’idea della trasferta studio e, come i bravi studenti che eravamo stati una volta, ci impegnavamo meticolosi ad appuntare il detto e il degustato. E poi la sera, come al chiudersi dei cancelli del collegio, era invece fuga e baldoria e bicchieri più spessi. Quella estrema necessità di un quaderno sempre appresso, spauracchio diligente da riempire con serietà, sarebbe presto naufragata al cospetto della vita reale d’un vignaiolo di fama.

Il pullman bianco – così lo ricordo ora – ci portava chiassosi e ben speranti verso il paradiso. Come avrebbe faticato, al ritorno, così carico, stracarico, di casse e vetri, su quelle sue ruotine lente lente, i sedili bui e assonnati. Così ci portava, aprendo le prime porte all’aria frizzante di Volnay. Tutto era meraviglioso: il paesino di pietra silenzioso; il panorama pastello, di campagna e nuvole; il cielo e quegli alberi senza foglie nella piazza. E l’incontro, certo, come timorosi d’avventurarci senza una guida salda, con il maestro Armando, che direttamente da Lione arrivava a raggiungere impaziente la sua classe. Come ancora non sapevo che quella sua presenza lì fosse scintilla a tutto il meccanismo della giostra, come di lì a poco sarebbe stato investito cavaliere.

Il cancello stava giusto sull’altro lato della strada, nero e ferroso, sottile. Un campanellino elettrico, in fianco, con una targa sproporzionata sopra. “M. Voillot, proprietaire, vigneron”. Quella strana sensazione, sempre quando si visita una cantina storica e particolarmente lassù in Borgogna, di entrare per sbaglio in casa di qualcun altro. Come quando inizi a scoprire che il nome di un vino non rappresenta per forza il nome dell’uva con cui è fatto. Così, bussiamo da Voillot, ma ci accoglie Charlot, che è il genero di Joseph delle etichette, ma non lo stesso che ha fondato l’azienda, essendo vecchia di fine Ottocento. Le omonimie borgognone: un altro prezioso tassello dell’affascinante mosaico della storia regionale. L’elenco del telefono sempre appresso servirebbe magari ad evitare di spender denari per toma, anziché Roma. Ma qui, per lo meno, gli stessi nomi appartengono alla stessa famiglia. Una famiglia distesa sopra una decina d’ettari, tra Volnay e Pommard, Meursault e Beaune. La cantina sta a Volnay, praticamente in fianco alla più classica delle trattorie di fuori porta, un ristorantino che viaggia a spron battuto su bourguignonne e andouillette.

Una cosa che avrei riportato bene impressa nella testa – e che ancora racconto a mo’ di mistica scoperta – sarebbero certo state le pareti di quelle stanze sotterranee. Le scale strette, le volte basse, i disimpegni angusti in cui s’adagiavano matrone esauste di rovere, s’allungavano distese silfidi di vetro scuro. Il tutto ovattato, silenzioso sotto il telo ricamato della muffita umidità. La pietra dei muri suggeriva arrotondata delicatezza, anziché possanza geometrica. Le cataste di bottiglie assumevano aspetto di linee fluttuanti, anziché il rigore della precisione logistica. Tutto era soffice e antico. Le pareti erano rivestite di questa peluria medioevale, variegata nei suoi toni del bianco caldo, dei grigi, delle sfumature dal paglierino all’ocra. Chiazze che ora si allargavano, ora restringevano, ma senza soluzione di continuità arrotondavano spigoli, giravano nelle aperture e colonizzavano tutti gli spazi. Dove noi respiravamo, beati: e voglio credere adesso che parte di quella eternità sia frammista alle nostre cellule umane. I vini dormivano il sonno delle principesse fiabesche, evidentemente. Sotto i loro lenzuoli felpati stavano irriconoscibili e, al mio occhio nuovo del posto, perduti. Quale mappa provvidenziale doveva essere nascosta sotto il mattone traballante del pavimento, per dare modo di andare a pescare quel vigneto, quell’annata, quella bottiglia, così alla cieca? Non ricordo nessuna etichetta visibile, in quella luce smorta: né avrebbero potuto resistere agli anni e alle muffe, le scritte lì sotto. Mentre giravo lo sguardo in cerchio continuo e inarrestabile, estasiato, come si resta rapiti nell’osservare il fantastico, sentivo una voce (o erano più?) che guidava la visita. Ecco, quello che sta fuori non può stare dentro e quello che sta nel mezzo protegge ciò che è dentro da ciò che è fuori. Era lapalissiano. Le muffe – a chi affascinanti e a chi raccapriccianti – stavano a baluardo del vino. Così si spiegava. Un sottovuoto naturalissimo e prezioso svolgeva nella pratica l’attività che nei locali cosiddetti moderni e funzionali svolge il Napisan. Non avevo dubbi, non potevano essercene: quel luogo era quanto di più atavico, emblematico, archetipico si possa immaginare in fatto di “cantina” e allo stesso tempo materiale, tangibile, vero. Il paragone con bianche piastrelle lucide e igienizzate appariva oltraggioso.

Alfine uscimmo a incontrar le stelle: di rubino erano e liquide. Allineate a due a due, che i bevitori eran numerosi, stavano le bottiglie scure, slanciate parevano. Etichette di estrema semplicità, concedevano l’unico vezzo d’un corsivo, a indicazione geografica. La carta non era liscia: non potevo trattenermi dal passarci di sopra le dita, per sentirne la materia ruvida. I bicchierini, impugnatura grossolana che versa come fosse vino da tavola: il quale è, di fatto, se poi ci vogliamo arrovellare sugli abbinamenti. Ecco che in casa di Jean-Pierre, con la sua accoglienza umana, bonaria e sorridente, la discesa agli inferi prodigiosi, la sosta nella stanzetta angusta e spoglia, si disintegrava nella mia testa tutta l’impalcatura dei fragili e arroganti orpelli. Il vino va bevuto, questo conta. Ora non ha senso cercare di andare a recuperare nella memoria le differenze fra quegli assaggi: c’è di sicuro chi ne sa e ha fissato da qualche parte note degustative. Erano tutti buonissimi e un souvenir fra i tanti me lo sono concesso.

“Il nostro anfitrione, infine, visto che ebbe i calicetti tutti vuoti, si indaffarò per la stanzetta e s’industriò di cavarne, da un qualche àndito recòndito, un’anonima bottiglia, vetusta d’aspetto.”

Vecchia lo era davvero, quella bottiglia, se volevamo dar retta a quelle incrostazioni sul vetro, con tanto di residui di muffa mal ripuliti. Per tacer della polvere poi, quasi a bella posta spruzzata ad onorare i turisti. Che fosse davvero generosa emotività del momento o dulcis in fundo già studiato alla prenotazione nostra, comunque l’effetto scenico fu dei più applauditi. Era qualcosa dei primi anni settanta. Aperto e versato con somma disinvoltura. Radiografato, fiutato e degustato, noi; guardato, annusato e bevuto, lui. Tutte le domande che potevamo avere in mente trovavano modo di raggiungere Jean-Pierre, che non si schermiva, parlava, spiegava. Nessuna ostentazione mai, però, nessun piedistallo, nessun palcoscenico. Un essere sorto dalla terra per fare vino e per raccontarlo ai curiosi. E per berlo, più d’ogni cosa.

L’imbrunire svolazzava già sopra i tetti, la luminaria stupefacente imbiondiva già la facciata della chiesa. La gaieté fuira vos festins si de Volnay vous ne servez les vins!

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BARBARA AVELLINO: oltre l’Oltrepo’

Guardavamo il trattore che sparava il suo fumo sul vigneto. Bianche nuvole aeree in un mare verde di smeraldo. Noi stavamo sul pendio di fronte e lo seguivamo senza che i vapori ci toccassero il naso o la gola. Non sapevamo cosa fosse in atto di preciso, laggiù, ma poco ci importava: avevamo i piedi sull’erba, noi, e l’erba alta era anche tra i filari e tutt’intorno alle viti. E tutto quel prato era bello a vedersi, come può esserlo il sole in una giornata di primavera. Il trifoglio era davvero gigante, pensavo, con i suoi fiori purpurei a palloncino. Poi, altre erbe alte e carnose, con fiori gialli in cima, ancora chiusi. Ogni erba la sua funzione, stava spiegando Barbara, che ci portava in giro serena ed entusiasta, come una vera padrona di casa che conosca il valore di ciò che mostra ai propri ospiti.

Le viti avevano quell’ordine classico e cadenzato, che sempre emoziona e lascia pensare che non possa essere spontaneo il lavoro della viticultura. E’ cultura, di fatto, e con ciò si esprime il concetto di un progetto ben definito e portato avanti nel tempo con rispetto e precisione. Anche tutte quelle erbe non parevano davvero spontanee: perché di ognuna c’era una ragione, un vantaggio per qualcosa o un deterrente contro qualcos’altro. Il terreno, intanto, non può fare a meno delle erbe, considerando quelle pendenze e le piogge che avevano innaffiato fino a un paio di giorni avanti. Non che si parli di montagna impervia, intendiamoci. Eppure, dura una certa fatica l’andar su e giù per quei filari e la via che con l’auto ci aveva portato qui appariva sempre più stretta e tortuosa, inerpicandosi sul fianco di colline che sembrano troppo numerose per uno spazio simile. Tutto è verde qui. Come l’Irlanda, pensavo. A tratti, dove il legno appariva più protagonista, era il segno della gelata di pochi giorni prima. Le foglie, avvizzite e accartocciate, erano una polvere tenuta insieme dall’aria soltanto; e i tralci, sottili tratti d’inchiostro di una penna quasi ormai esaurita. Le acacie, anche, là in fondo come una quinta a chiudere il palcoscenico della vite, erano in piedi secche e puntute, con quei loro rami grifagni a indicare un cielo avverso, i fiori appena apparsi e appesi ora come inutili vestigia. Così che, per quest’anno miele di acacia non se ne vedrà. E ancora bisognerà dirsi fortunati se le acacie risorgeranno dal gelo, il prossimo anno.

La voce di Barbara illustra la natura in maniera coerente, un cicerone che ne sappia recitare il libretto di istruzioni e lo spieghi agli ignoranti. Tutto diviene semplice e praticamente ovvio. Meglio l’inerbimento al brullo tra i filari, perché i parassiti trovano un filtro prima di arrivare ad attaccare la vite; meglio la lotta integrata alla chimica, perché il ciclo naturale viene rispettato e non si introducono elementi avversi alla pianta e all’uomo; meglio le api a impollinare le piante che una qualsiasi selezione clonale. Il giallo delle api era un colpo accelerato in tutto quel lento verde. Il frenetico brusio di quelle ali trasparenti, una fretta quasi stonata in quel placido panorama silente. Stavano tutte ammonticchiate dentro quelle loro casette colorate, non rosse e non nere, i colori che hanno eletto insopportabili. Ronzavano come un motore elettrico quelle rimaste orfane di regina e che presto ne avrebbero dovuto accudire una nuova. Danzavano sciamaniche le esploratrici rientrate di missione, ad indicare la via del cibo alle residenti. Volavano leggere e precise le bottinatrici, nell’aria luminosa e tiepida, a raccogliere nettare per la dispensa. E fremevano tutte le altre, addossate contro i loro pannelli di cera, a depositar miele, a chiudere celle, ad aprire, accudire, rodere e pulire: non c’è mai tregua in un alveare. E la regina col suo puntino bianco è una piccola torcia che cammina continuamente sopra le celle vuote e deposita uova e ingrandisce la famiglia. Si potevano alzare i pannelli, scuoterli per osservare il lavoro e il miele al di sotto: le api ronzavano via come una nube scura e sparpagliata e vi ritornavano in un momento, calamite attratte dal magnete della propria casa. Come astronauti stavamo a guardarle dappresso, con quelle mascherone di rete fitta e le casacche ampie e bianche, sorta di bluse di antichi schermidori. Il ciliegio folto faceva sfondo e limite alle arnie e già portava rami carichi di pallottole verdi in attesa d’estate.

Che tutto che noi eravamo arrivati per visitare una cantina, ci ritrovavamo immersi in una atmosfera silvana e prativa, scolari a lezione sul campo. Pergola, guyot e cordone speronato venivano abbinati ai diversi vitigni in base alle esigenze di ognuno e alle caratteristiche vegetative. Le erbe, con i loro trucchi a contrasto dei parassiti, trovavano collocazione ordinata nei cassetti del nostro sapere e il sottosuolo, nemmeno, più nascondeva segreti: i canali sotterranei e gli stratagemmi a impedire smottamenti ci erano ormai svelati e illustrati. Fino alla chirurgia applicata alla vite, la nostra ospite non ci lesinava insegnamento alcuno. Ripensandoci, a sera, mi rendevo realmente conto dell’importanza di una simile accoglienza: non era spiegare un mestiere, quanto presentare la propria vita, il proprio pensiero sulla vita. Mettete da parte l’orologio, ci sembrava voler dire, perché la natura fa il suo corso con un tempo che non è umano. Era una selezione massale della conoscenza, una propagazione della sensibilizzazione verso un modo di operare nel mondo, che sia conscio e non sfruttatore dell’ambiente. Ascoltate e raccontate, ci diceva.

Rosso era, per antitesi, il colore conclusivo della giornata. Rosso, il succo di queste uve di croatina, di barbera e uva rara. Rosso, rigoglioso di violacea spuma finissima oppure fermo nei suoi densi toni introversi.

Giafèr è un mascalzone, un brighelladirebbero in quartieri più meneghini, vivace del suo spirito fresco e però ruspante di quella terra scoscesa che avevamo appena percorso. Era il frutto più giovane della collina, nell’idea originaria; ma ora, davanti a quella bottiglia targata 2012 non si può dire voglia nascondere la sua voglia di crescere.

Caotico è l’archetipo del nomen/omen, figlio perfetto di quella composizione geologica che frastaglia le fondamenta della cantina. Scuro come la notte e spumeggiante come una festa, complesso come tutti i caratteri delle uve che raccoglie.

Venerdì 13 è un signorotto più serio e compìto, che rimane accovacciato sulle sue bucce per lungo tempo e altrettanto ne abbisogna per svelare la sua indole potente e profonda. Un altro nome-simbolo, una data nella storia di questa azienda, ma che non ci è dato ancora sapere in che modo.

Millenovecentoquarant’otto non ha bisogno di presentazioni: è proprio quel che dice di essere, il figlio della vite settantenne, l’anima storica e contorta del vigneto. Una storia cui si deve concedere il legno grande e tutti i riguardi del tempo lento e della macerazione lunga sulle bucce, la pelle che ha respirato tutti gli avvenimenti della collina, la scorza che l’ha difeso da ogni insidia.

Quella porta di legno e vetri opachi è l’ingresso dell’azienda. Quella porta è l’uscio di casa. Non ci si crede quasi, in questi tempi ipermoderni, che possiamo fare degustazione e sentire il racconto delle produzioni nientemeno che sul tavolo da pranzo, le sedie strette all’intorno e i quattro calici a persona. E le scatole dei vini sono sgabelli ai vari oggetti che servono nel quotidiano: al blocco notes, all’agenda, alla cartelletta delle ricevute. Di là c’è la cucina, con la porta che dà sul cortile, ma che è anche cantiere della cantina in divenire, caotica. Tutto è simbolo, giri e ritorni tra volere di natura e desiderio dell’uomo. Non c’è più tempo, non c’è più tempo per niente, strillava frenetico il coniglio bianco di Alice: noi spiriti urbani abbiamo presi altri appuntamenti, perché non sapevamo calcolare ancora bene il respiro delle stagioni. Pensavo che vale bene il viaggio, l’incontro con Barbara ed Enzo, nei loro posti e con i loro modi, senza il sacrificio di angusti banchi d’assaggio sotto luci artificiali. Il tramonto è stato luminoso abbastanza per rischiarare questa regione dimenticata, al di là del grande fiume, smeraldo introverso eppure sì prossimo.

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MARIOTTI: di mare e di sabbia

La Vite

Affondano le radici nella sabbia, queste viti di Fortana.

Che non è come dire affondare nell’argilla mista a sabbia, nel calcare stratificato a sabbia, nello scisto cementato con la sabbia…

Vuol proprio dire piantare una barbatella in spiaggia: come scavare per costruire un castello di sabbia e invece erigere un castello di sogni arborei e fruttuosi. Oggi sono i Lidi Ferraresi lungo questa costa e una turista di lunga data di questi luoghi ammette candidamente di non aver mai saputo ci fossero delle vigne, da queste parti. Tutto è nascosto e silenzioso, immagine speculare della comunità del delta, chiusa intorno al riserbo di persone dedite al proprio lavoro, alla propria vita. Ma giusto dietro quella Duna della Puja – che corre lungo il litorale e ora semplice cordolo nascosto dagli arbusti e nemmeno distinguibile più in altezza dal resto della piana – si sviluppa orgoglioso il vigneto, autoctono fino al midollo. La sabbia non è la marna delle Langhe o il calcare di Borgogna. Ma il vanto di queste viti di Fortana sta proprio nell’essere sempre state di questo posto: il piede franco scava oggi come al tempo dei Romani, beffardo germoglio contro l’insistere della mortale fillossera. Il bisogno d’innestare su piedi d’oltreoceano, non ha qui trovato di che attecchire: sempre salde si sono mostrate le radici sulla sabbia, al pari di bibliche case costruite sulla roccia, perché il propagarsi dell’infetto insetto da una pianta all’altra trovava insuperabile ostacolo nel crollo del cunicolo che andava approntandosi… Dimodochè, diremmo che sulla sabbia la fillossera si scava la tomba con le proprie zampe. Sorpresa suprema, allora, nel vedere in atto un espediente letto sinora sui libri di studio e descritto ancora in epoca remota da quel primo tra gli agronomi scientifici, che fu Columella: il sistema di moltiplicazione della vite per propagazione, ossia affondando un ramo tenuto appositamente lungo nel terreno, facendolo rispuntare come un germoglio; col tempo, lo sviluppo del suo apparato radicale ne farà una nuova pianta. Un percorso che non si può seguire su altri terreni, perché la vite che ne risulta sarebbe subito facile preda dell’acaro famigerato.

La Sabbia

Impressionante appare lo spazio concesso a queste piante, l’ampiezza ariosa che si spalanca tra un filare e il successivo. Davvero, il sesto d’impianto pare la misura di un viale alberato, una Via della Conciliazione che prosegue fino al mare. Le genti di questa terra non erano avvezze ad una produzione vitivinicola che fosse orientata al mercato e ai “foresti”: del resto, Venezia è un po’ più in alto e il suo luminoso navigare poco contagia lo splendido isolamento dei litoranei. L’uva, quindi, per pigiarci un vino protagonista della mensa, per le bottiglie ai parenti, agli amici e nulla più. Siamo nell’immediata precedente generazione, se non proprio in questa attuale, a cercare i nuovi volti del vino come lavoro di sostentamento. Tutta quella terra, allora, faceva gioco ad altre colture essenziali: le verdure – perché no? – o l’erba medica e, magari, periodicamente il semplice gerbido, a ritemprare il sottosuolo con un meritato riposo. Potrebbe così parere una vendemmia semplice ed agevole, purtuttavia nella sabbia il piede affonda e con il caldo è polvere, con la pioggia è fango. Sotto il peso dei passi dei vignaioli o delle ruote dei mezzi, la sabbia si compatta, in certa misura; ma distante, comunque – altra sorpresa – dall’amalgamarsi dell’argilla, che di finezza insuperabilmente maggiore è fatta: la granulometria seppur impalpabile della sabbia non le permette, infatti, di giungere a compattarsi, come invece è capace di mutarsi l’argilla, che diviene vera e propria lastra, più o meno profonda e addirittura impermeabile.

L’altezza del terreno anch’essa muta stagionalmente. Le radici devono ben respirare nei mesi afosi della canicola e si provvederà, quindi, a scavare lungo tutto il filare una sorta di canale; si dovranno, nella medesima stagione, strappare le infestanti che naturalmente crescono tra le viti, e ammassarle al centro del passaggio. Serviranno, queste erbe essiccate, nella stagione autunnale, quando vi si andrà a colmare il canaletto in modo che le radici possano rimanersene calde durante l’inverno e protette dai parassiti grazie all’azione del decomporsi di queste – una volta – erbacce.

Il Mare

Il racconto di chi questa terra la coltiva e la vive è profondo e appassionato, un percorso scavato verso il centro della terra contro l’aleggiare superficiale e stupito del mio ascoltare e fotografare. I miei piedi si muovono sopra un terreno che in epoche nemmeno tanto preistoriche non c’era, lasciava posto all’acqua salata. Siamo presso un litorale, certo: molto semplice recepire come il mare fosse ovunque. Ma la capacità di affioramento di quel sale antico, ancora sì potente che in alcune zone nemmeno permette l’uso dell’acqua di falda per l’irrigazione, è una questione che il mio Virgilio ha dovuto faticare per capire. L’indomita curiosità di Mirco Mariotti lo spinge a studiare addirittura le variazioni di conformazione del fondale, per fargli scoprire come, nei pressi più vicini al mare odierno, si innalzi una sorta di barriera rocciosa che racchiude in conca la zona antistante: qui dentro, l’acqua marina ha stagnato più a lungo, impossibilitata a defluire verso il largo, e il sale vi si è maggiormente concentrato; tanto che ancora, in quelle zone, esprime la sua forza incompatibile alla coltivazione.

L’Uomo

La traduzione enologica di questo rendez-vous del mare con la sabbia e con il lavoro dell’uomo è sempre eclatante. Un meritato plauso devo riservare ad un esperimento che la generosità di Mirco ha voluto concederci all’assaggio, durante la festosa cena del manipolo vinixiano: un Metodo Classico Rosè,  elaborato con uve Nebbiolo e Fortana, vinificate separatamente e ognuna nella propria terra d’origine per essere poi riunite in un finissimo esempio di bollicina. Non sono un fautore del Nebbiolo spumantizzato; anzi, posso sinceramente ammettere di esserne certo avversario. Ma il connubio presentato a quella tavola mi ha incuriosito, prima, e poi subito conquistato: la Fortana apportava un corpo e una vena sapida molto decisi, ben in equilibrio nell’acidità spiccata del sorso. Una bollicina davvero fine e cremosa era la splendida cornice di un quadro ottimamente dipinto.

Montuni, chi era costui? Solo il giorno dopo avremmo incontrato in Vinessum il “Mai Sentito!” e non potevamo quindi spendere questa espressione alla tavola del sabato sera. Ma la personale ignoranza in questione era totale… Finchè salta fuori dal cilindro di Mariotti una creatura parecchio strana: Malèstar, appunto! Che di questo vitigno dimenticato e vagamente recuperato è figlio. Affascinante scoperta! Un bianco spesso, con quel carattere sapido che invade tutta la bocca e lascia quasi l’amaro come fodera, le gengive pulsanti e ancora una sete interessata.

Il fascino di questa visita risiede tutto nelle particolarità. Del luogo, così caratterizzato dalle acque, sospeso com’è tra il grande fiume, il mare aperto e l’antica palude conquistata dagli Estensi all’agricoltura. Della persona, Mirco Mariotti: un produttore di vini, soprattutto un uomo curioso, che è la più bella attitudine dell’essere umano. Il suo voler conoscere a fondo e quindi condurre in porto le potenzialità di queste vigne, che sono la sua terra, è ammirevole: per via che i vitigni non sono famosi e hanno dunque bisogno di fede; per via che è più facile abbandonare una zona complicata, piuttosto che sudare per valorizzarla. Per via che traspira passione e voglia di raccontarla: e già questo solo basta, a me, per farne persona degna di essere ascoltata e applaudita.

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IL PENDIO: l’anti-festival Franciacorta

La strada sale, sale come non ti immagineresti possa salire, in Franciacorta.
Le piane appena ondulate di Erbusco, di Adro, la lingua piatta dell’autostrada, sono lontane come un altro pianeta. Qui siamo in montagna. Monticelli Brusati, ad essere precisi, sopra un cucuzzolo che rappresenta “Il Dosso”. Il terreno è scosceso in maniera impressionante: disegna triangoli di colture che si inabissano sotto lo sguardo, per aprire l’orizzonte ad altre curve e linee sfuggenti, verdi e alberate.
C’erano dei cingolati parcheggiati sotto il portico e già pensavo fosse una follia con quelli, entrare a lavorare nel vigneto. Non mi ci avventurerei che a piedi, tra quei filari e magari pure con una certa imbragatura.
Insomma, Michele produce il suo vino qui. Con sistemi biologici e difendendosi pure dai cinghiali che scorrazzano impunemente per queste lande. Difendendosi anche dal turista che sciama per la regione sull’onda del festival? Onore/onere di una piccolissima cantina, del resto: non vedersi sfilare davanti l’ingresso pullman ricolmi di ignoranti aspettative/voler lavorare per sè, ma dovendo cercare di farsi conosce per poterlo fare.
C’è di bello quest’aria gioiosa, nel festival, e la possibilità di inciampare casualmente in alcune dritte del caso. Così, un anno fa, mi imbattevo in Coghi, che raccontava e faceva assaggiare i vini da Faccoli; e mi nominava questa azienda, Il Pendio, dove facevano cose notevoli.

Il taccuino prevedeva, allora, altre tappe e così c’è passato del tempo prima di arrivare qui in montagna. Però… Quando si dice “vale il viaggio”! Capito lì la domenica dopo pranzo e subito ho l’impressione dello spavaldo che arriva dalla città a rompere le scatole per due bottiglie. L’atmosfera è decisamente quella di una tavolata di amici in giorno di festa: non ci sono hostess, non ci sono prenotazioni o biglietti d’ingresso, non ci sono code di gente in trepida attesa… E, del resto, dove potrebbero mai mettersi? Tra la strada che è stretta e ripida e non c’è nemmeno lo spazio per parcheggiare, e l’ingresso che è sotto il portico ed è proprio quello dell’abitazione, e la cantina che è lì nascosta incastrata dove la strada già diventa sentiero e si inerpica nella vigna… Mi faccio vedere alla porta aperta, che ha l’aria di essere quella del magazzino: ecco, il viso conosciuto di Coghi, almeno ho un aggancio, e subito via con il giro della cantina e la spiega del lavoro e delle terre d’intorno, e poi lì sotto quel portico, alla tavola appena sparecchiata, bersi qualche bicchiere in compagnia del produttore, dell’enologo, di visitatori da Vicenza, di amici che vanno e vengono continuamente. In un attimo, così, mi ritrovo immerso nella stessa atmosfera che mi pareva, all’arrivo, di interrompere e guastare. E che spettacolo, questo modo di “degustare”! Si beve ognun per sè e ognuno può dire “mi piace, non mi piace”, e il perché e il percome; ma nessuno pretende, nessuno tiene in mano il vocabolario del perfetto sommelier e la libertà di dire o di starsene sul bicchiere è meravigliosa e totale. Dico solo che, infine, arrivato il giorno prima come dono di amici, circola sulla tavola un avanzo di Meursault, del grande vecchio Albert Grivault… Che gente, questi del Pendio!

Michele, dicevamo. Produce i suoi vini come per cercare di mettersi in cantine delle bottiglie eccezionali. Poi, per quanto piccola possa essere l’azienda, ha certo un bell’esubero da un consumo solamente personale e quindi li vende: per fortuna, perchè così li si può assaggiare. Questa è l’impressione che ho avuto accostandomi ai suoi Franciacorta: una produzione curatissima, a partire dal campo e poi fino alla bottiglia, in cui tutto rientra con i propri equilibri e soprattutto i propri tempi. La terra, la pianta, il frutto, la mano, il lievito, la pazienza… Sono bollicine elegantissime, con i muscoli sotto il vestito della festa.
Il Pinot Bianco che interviene nella cuvée Cunvai, è una chicca incredibile: un’avvolgenza straordinaria al palato, davvero la definizione perfetta di satén. E dire che nasce da un “errore”, dallo shock termico subito dalle bottiglie durante la seconda fermentazione: un residuo zuccherino che si nota e di una bella rotondità al bicchiere, quasi già un antipasto più che solo aperitivo!
Il Contestatore, invece, è lo Chardonnay in purezza con il suo strascico di crosta di pane, che in Franciacorta ti aspetti. Ma questo è un pas dosé; questo è praticamente un vino di montagna: fine, persistente, elegante, sì ma con una freschezza sulla lingua e una sapidità che ti ripulisce da qualsiasi idea standard tu abbia sul metodo classico!
Brusato è l’altro Chardonnay, definito extra brut in etichetta, ma praticamente anche lui pas dosé, non essendoci aggiunte durante la sboccatura. Il residuo zuccherino è naturale. In un doppio senso, mi par di capire: naturale perché non indotto, e naturale perché così l’ha fatto la natura, questo vino. Insomma, se c’è dello zucchero che deve depositarsi sul fondo, non ci si può far niente; se la presa di spuma pretende quarantotto mesi, non ci si può far niente; se la grandine ti vendemmia i filari a inizio estate o se il sole ti matura le uve perfettamente, non ci si può far niente… Il Pendio è la voce della natura.

Dulcis in fundo, come si conviene, e la citazione è parecchio indovinata: Blanc de Noir pas dosé, che quasi lo si poteva anche battezzare “Rosé de Noir”, tanto il Pinot Nero ha lasciato la traccia seppur le bucce siano rimaste lì pochissimo a spennellare il mosto. Ricco di frutto di bosco e di struttura, freschissimo e sapido: una meravigliosissima sorpresa, pieno al palato e golosissimo.
Il Pinot Nero lo trovo anche vinificato in purezza nell’etichetta La Valletta. Il Cabernet Franc, invece, va a costituire un’altra bottiglia, La Beccaccia. Un uvaggio Cabernet Franc e Merlot, infine, per la Etichetta Rossa. Degustazioni che mi riserverò più in là, aprendo il mio bel cartone che ho raccolto come souvenir di una originale gita in campagna.

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AZIENDA AGRICOLA LA BASIA

C’era un silenzio che sapeva assolutamente di natura.
E io guardavo il filare davanti, nella conca, e il resto del vigneto ordinato; poi gli alberi sparuti e ancora filari, sugli appezzamenti più in là, rettangoli spaiati in altezza e distanza; ancora curve e alberi, poi il bosco sul monte all’orizzonte. Tutto di verde vestito, scintillante o rabbuiato, intenso, scuro o metallico; verde di prato irlandese primaverile e verde lontane che sfumava d’azzurro. Il profumo del sole caldo mi stava intorno alla testa e tutta quella luce mi illuminava uno scenario non vasto, ma sorprendentemente articolato pensando che, di fatto, era solo di verzura e qualche tronco composto. Era proprio lo spettacolo della terra lasciata libera, gli alberi, o compresa ed educata all’ordine, i filari.
Sentivo lo sguardo di Giacomo spiarmi, lì dall’angolo, e sorridere, quando voltandomi gli dicevo “Che spettacolo!”. Mi pareva di cogliere allora sul suo viso l’orgoglio di un’anima attaccata alla propria terra, quando incontra un qualcuno che condivida lo stesso pensiero di bellezza su quella natura. In quell’impressione di un secondo realizzavo appieno i discorsi appena fatti sul modo di lavorare e di condurre l’azienda attraverso l’agricoltura, l’allevamento, la vinificazione. Tutto parte da un sentimento, imprescindibile: l’amore per il proprio territorio. Lì stanno le radici.
Che poi si viaggi avanti e indietro per l’Europa e San Francisco, è un risultato, non una partenza. L’obiettivo centrato, mi pareva di cogliere, è quello di aver assecondato il desiderio di una persona cara e averlo fatto proprio. Il desiderio era legato a queste colline, al vigneto su cui la generazione appena precedente spendeva una certa fatica e alla voglia di volerlo rivedere risplendere rigoglioso.
La Basia [con l’accento sulla prima a] è proprio il calice da cui si bevono i sogni. Scoprivo lì come si pronuncia il nome, mentre Giacomo indicava il terreno a conca e diceva “Come dalle vostre parti si dice bàsla”. Il contenitore fondo, la zuppiera, il recipiente con dentro una quantità di cose… Ce n’erano tante, davvero, lì da guardare, di cose. I sassi del terreno morenico e i grappoli spargoli del rebo; le reti contro la grandine e il prato dell’erba medica; gli olivi sparsi a filari, le pannocchie piccole del granturco locale, l’acqua che scorreva sorgiva; i cavalli e i cavalieri, la tavolata d’amici, il panorama sul lago, le bottiglie aperte e versate. I sorrisi delle persone e il discorrere del vino come di un amico lì seduto con noi.
C’era da vedere, alla Basia, la passione e il cuore.