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BARBARA AVELLINO: oltre l’Oltrepo’

Guardavamo il trattore che sparava il suo fumo sul vigneto. Bianche nuvole aeree in un mare verde di smeraldo. Noi stavamo sul pendio di fronte e lo seguivamo senza che i vapori ci toccassero il naso o la gola. Non sapevamo cosa fosse in atto di preciso, laggiù, ma poco ci importava: avevamo i piedi sull’erba, noi, e l’erba alta era anche tra i filari e tutt’intorno alle viti. E tutto quel prato era bello a vedersi, come può esserlo il sole in una giornata di primavera. Il trifoglio era davvero gigante, pensavo, con i suoi fiori purpurei a palloncino. Poi, altre erbe alte e carnose, con fiori gialli in cima, ancora chiusi. Ogni erba la sua funzione, stava spiegando Barbara, che ci portava in giro serena ed entusiasta, come una vera padrona di casa che conosca il valore di ciò che mostra ai propri ospiti.

Le viti avevano quell’ordine classico e cadenzato, che sempre emoziona e lascia pensare che non possa essere spontaneo il lavoro della viticultura. E’ cultura, di fatto, e con ciò si esprime il concetto di un progetto ben definito e portato avanti nel tempo con rispetto e precisione. Anche tutte quelle erbe non parevano davvero spontanee: perché di ognuna c’era una ragione, un vantaggio per qualcosa o un deterrente contro qualcos’altro. Il terreno, intanto, non può fare a meno delle erbe, considerando quelle pendenze e le piogge che avevano innaffiato fino a un paio di giorni avanti. Non che si parli di montagna impervia, intendiamoci. Eppure, dura una certa fatica l’andar su e giù per quei filari e la via che con l’auto ci aveva portato qui appariva sempre più stretta e tortuosa, inerpicandosi sul fianco di colline che sembrano troppo numerose per uno spazio simile. Tutto è verde qui. Come l’Irlanda, pensavo. A tratti, dove il legno appariva più protagonista, era il segno della gelata di pochi giorni prima. Le foglie, avvizzite e accartocciate, erano una polvere tenuta insieme dall’aria soltanto; e i tralci, sottili tratti d’inchiostro di una penna quasi ormai esaurita. Le acacie, anche, là in fondo come una quinta a chiudere il palcoscenico della vite, erano in piedi secche e puntute, con quei loro rami grifagni a indicare un cielo avverso, i fiori appena apparsi e appesi ora come inutili vestigia. Così che, per quest’anno miele di acacia non se ne vedrà. E ancora bisognerà dirsi fortunati se le acacie risorgeranno dal gelo, il prossimo anno.

La voce di Barbara illustra la natura in maniera coerente, un cicerone che ne sappia recitare il libretto di istruzioni e lo spieghi agli ignoranti. Tutto diviene semplice e praticamente ovvio. Meglio l’inerbimento al brullo tra i filari, perché i parassiti trovano un filtro prima di arrivare ad attaccare la vite; meglio la lotta integrata alla chimica, perché il ciclo naturale viene rispettato e non si introducono elementi avversi alla pianta e all’uomo; meglio le api a impollinare le piante che una qualsiasi selezione clonale. Il giallo delle api era un colpo accelerato in tutto quel lento verde. Il frenetico brusio di quelle ali trasparenti, una fretta quasi stonata in quel placido panorama silente. Stavano tutte ammonticchiate dentro quelle loro casette colorate, non rosse e non nere, i colori che hanno eletto insopportabili. Ronzavano come un motore elettrico quelle rimaste orfane di regina e che presto ne avrebbero dovuto accudire una nuova. Danzavano sciamaniche le esploratrici rientrate di missione, ad indicare la via del cibo alle residenti. Volavano leggere e precise le bottinatrici, nell’aria luminosa e tiepida, a raccogliere nettare per la dispensa. E fremevano tutte le altre, addossate contro i loro pannelli di cera, a depositar miele, a chiudere celle, ad aprire, accudire, rodere e pulire: non c’è mai tregua in un alveare. E la regina col suo puntino bianco è una piccola torcia che cammina continuamente sopra le celle vuote e deposita uova e ingrandisce la famiglia. Si potevano alzare i pannelli, scuoterli per osservare il lavoro e il miele al di sotto: le api ronzavano via come una nube scura e sparpagliata e vi ritornavano in un momento, calamite attratte dal magnete della propria casa. Come astronauti stavamo a guardarle dappresso, con quelle mascherone di rete fitta e le casacche ampie e bianche, sorta di bluse di antichi schermidori. Il ciliegio folto faceva sfondo e limite alle arnie e già portava rami carichi di pallottole verdi in attesa d’estate.

Che tutto che noi eravamo arrivati per visitare una cantina, ci ritrovavamo immersi in una atmosfera silvana e prativa, scolari a lezione sul campo. Pergola, guyot e cordone speronato venivano abbinati ai diversi vitigni in base alle esigenze di ognuno e alle caratteristiche vegetative. Le erbe, con i loro trucchi a contrasto dei parassiti, trovavano collocazione ordinata nei cassetti del nostro sapere e il sottosuolo, nemmeno, più nascondeva segreti: i canali sotterranei e gli stratagemmi a impedire smottamenti ci erano ormai svelati e illustrati. Fino alla chirurgia applicata alla vite, la nostra ospite non ci lesinava insegnamento alcuno. Ripensandoci, a sera, mi rendevo realmente conto dell’importanza di una simile accoglienza: non era spiegare un mestiere, quanto presentare la propria vita, il proprio pensiero sulla vita. Mettete da parte l’orologio, ci sembrava voler dire, perché la natura fa il suo corso con un tempo che non è umano. Era una selezione massale della conoscenza, una propagazione della sensibilizzazione verso un modo di operare nel mondo, che sia conscio e non sfruttatore dell’ambiente. Ascoltate e raccontate, ci diceva.

Rosso era, per antitesi, il colore conclusivo della giornata. Rosso, il succo di queste uve di croatina, di barbera e uva rara. Rosso, rigoglioso di violacea spuma finissima oppure fermo nei suoi densi toni introversi.

Giafèr è un mascalzone, un brighelladirebbero in quartieri più meneghini, vivace del suo spirito fresco e però ruspante di quella terra scoscesa che avevamo appena percorso. Era il frutto più giovane della collina, nell’idea originaria; ma ora, davanti a quella bottiglia targata 2012 non si può dire voglia nascondere la sua voglia di crescere.

Caotico è l’archetipo del nomen/omen, figlio perfetto di quella composizione geologica che frastaglia le fondamenta della cantina. Scuro come la notte e spumeggiante come una festa, complesso come tutti i caratteri delle uve che raccoglie.

Venerdì 13 è un signorotto più serio e compìto, che rimane accovacciato sulle sue bucce per lungo tempo e altrettanto ne abbisogna per svelare la sua indole potente e profonda. Un altro nome-simbolo, una data nella storia di questa azienda, ma che non ci è dato ancora sapere in che modo.

Millenovecentoquarant’otto non ha bisogno di presentazioni: è proprio quel che dice di essere, il figlio della vite settantenne, l’anima storica e contorta del vigneto. Una storia cui si deve concedere il legno grande e tutti i riguardi del tempo lento e della macerazione lunga sulle bucce, la pelle che ha respirato tutti gli avvenimenti della collina, la scorza che l’ha difeso da ogni insidia.

Quella porta di legno e vetri opachi è l’ingresso dell’azienda. Quella porta è l’uscio di casa. Non ci si crede quasi, in questi tempi ipermoderni, che possiamo fare degustazione e sentire il racconto delle produzioni nientemeno che sul tavolo da pranzo, le sedie strette all’intorno e i quattro calici a persona. E le scatole dei vini sono sgabelli ai vari oggetti che servono nel quotidiano: al blocco notes, all’agenda, alla cartelletta delle ricevute. Di là c’è la cucina, con la porta che dà sul cortile, ma che è anche cantiere della cantina in divenire, caotica. Tutto è simbolo, giri e ritorni tra volere di natura e desiderio dell’uomo. Non c’è più tempo, non c’è più tempo per niente, strillava frenetico il coniglio bianco di Alice: noi spiriti urbani abbiamo presi altri appuntamenti, perché non sapevamo calcolare ancora bene il respiro delle stagioni. Pensavo che vale bene il viaggio, l’incontro con Barbara ed Enzo, nei loro posti e con i loro modi, senza il sacrificio di angusti banchi d’assaggio sotto luci artificiali. Il tramonto è stato luminoso abbastanza per rischiarare questa regione dimenticata, al di là del grande fiume, smeraldo introverso eppure sì prossimo.