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#3 Sessione Privata: vini bianchi

Private White Session, Sommelier Social Club

“Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi…”

Terza tappa del percorso di selezione approntato per i nostri futuri sposi.

Dall’idea dell’aperitivo di benvenuto fino al calice per il brindisi finale, passando per la tavola. Sommelier Social Club ha approntato una sequenza di sette diversi vini bianchi, più un intruso! Capitolo finale della sequenza di selezione per un giorno che sarà me-mo-ra-bi-le.

VINO BIANCO 2019 – Manlio Manganaro

IGT Terre Siciliane. Marsala, Trapani. Grillo 100%. 12,0% alc.vol.

Fermentazione spontanea in acciaio e breve macerazione sulle bucce. Affinamento: acciaio per alcuni mesi.

RIBOLLA GIALLA 2019 – Marco Sara

DOC Colli Orientali del Friuli. Pavoletto, Udine. Ribolla Gialla 100%. 12,5% alc. vol.

Fermentazione spontanea in acciaio. Malo-lattica non svolta. Affinamento: acciaio per alcuni mesi.

DELYUS 2019 – Marta Valpiani

IGP Forlì Bianco. Castrocaro Terme, Terra del Sole, Forlì. Albana 100%. 13,0% alc. vol.

Pressatura soffice, nessuna macerazione. Fermentazione spontanea in cemento. Malo-lattica in funzione dell’annata. Affinamento: cemento per 6 mesi.

FIANO DULCIS 2014 – Fosso degli Angeli

DOC Sannio. Casalduni, Benevento. Fiano 100%. 13,0% alc. vol.

Crio-macerazione per 12 ore. Pressatura soffice. Fermentazione in acciaio con lieviti indigeni. Affinamento: acciaio per 12 mesi.

DERTHONA 2018 – Ricci

DOC Colli Tortonesi. Costa Vescovato, Alessandria. Timorasso 100%. 13,5% alc. vol.

Fermentazione spontanea e macerazione in legno di acacia per 3 giorni. Affinamento: botti di acacia usate da 700 litri per 12 mesi.

CAMPO DELLE OCHE 2013 – Fattoria San Lorenzo

DOC Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore. Montecarotto, Ancona. Verdicchio 100%. 15,0% alc. vol.

Fermentazione spontanea in acciaio. Macerazione sulle bucce per 20 giorni. Malo-lattica svolta. Affinamento: cemento per 2 mesi, poi acciaio per 30 mesi.

CLEMATIS VITALBA 2014 – Domaine Naudin-Ferrand

AOC Hautes Côtes de Nuits. Magny-lès-Villers, Côte d’Or, Bourgogne. Chardonnay 100%. 12,5% alc. vol.

Pressatura a grappolo intero. Fermentazione e malo-lattica in barrique. Affinamento: barrique, 35% nuove, per circa 12 mesi.

Vuoi divertirti anche tu con la tua personalissima degustazione privata? Non esitare a contattarci: info@sommeliersocialclub.com

I protagonisti della serata
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#2 Sessione Privata: vini rossi

Private Red Session, Sommelier Social Club

“Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi…”

Seconda tappa del percorso di selezione approntato per i nostri futuri sposi.

Private Red Session, Sommelier Social Club
Private Red Session, Sommelier Social Club

Dall’idea dell’aperitivo di benvenuto e del calice per il brindisi finale siamo passati ora alla tavola. Sommelier Social Club ha approntato una sequenza di sette diversi vini rossi: dal più immediato al più complesso, dal vino leggiadro a quello sostanzioso, dal luminosissimo primaverile all’oscuro autunnale. Abbiamo cercato di considerare tutte le possibili varianti, i gusti degli invitati e gli accompagnamenti culinari. Una cosa su tutte, però: senza discussioni, la qualità e l’artigianalità delle proposte.

CA’ FIUI 2019 – Corte Sant’Alda

DOC Valpolicella. Mezzane di Sotto, Verona. Corvina 40%, Corvinone 40%, Rondinella 15%, Molinara 5%. 12,5% alc.vol.

Fermentazione spontanea in tini di legno da 40hl. Macerazione sulle bucce tra i 15 e i 20 giorni. Affinamento in tini tronco-conici di rovere per 6/10 mesi.

PIEDIROSSO CAMPI FLEGREI 2016 – Contrada Salandra

DOP Campi Flegrei. Pozzuoli, Napoli. Piedirosso 100%. 13,0% alc. vol.

Fermentazione spontanea in acciaio. Affinamento in acciaio per 18 mesi.

AI CONFINI DEL BOSCO 2018 – Mulini di Segalari

DOC Bolgheri Rosso. Bolgheri, Castagneto Carducci, Livorno. Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc 44%, Merlot 34%, Petit Verdot 14%, Syrah 8%. 13,0% alc. vol.

Fermentazione spontanea in acciaio. Macerazione sulle bucce per 15 giorni. Affinamento in botti di rovere da 23 ettolitri per 12 mesi.

POSAÙ 2019 – Maccario-Dringenberg

DOC Rossese di Dolceacqua. San Biagio della Cima, Imperia. Rossese 100%. 14,0% alc. vol.

Fermentazione spontanea in acciaio. Affinamento in acciaio per 12 mesi.

AMORE E PSICHE 2019 – Il Vino e Le Rose

Vino Rosso. Momperone, Alessandria. Nebbiolo 100%. 14,5% alc. vol.

Fermentazione spontanea in acciaio. Macerazione sulle bucce fino a 35 giorni. Affinamento in acciaio, passaggio di pochi mesi in barrique esauste.

DONESCO 2017 – Pacina

IGT Toscana Rosso. Castelnuovo Berardenga, Siena. Sangiovese 95%, Canaiolo e Ciliegiolo 5%. 15,0% alc. vol.

Fermentazione spontanea e fermentazione malo-lattica in vasche di cemento. Macerazione sulle bucce per circa 14 giorni. Affinamento in acciaio per 12 mesi.

ARTÙ 2016 – Fattoria San Lorenzo

IGT Marche Rosso. Montecarotto, Ancona. Montepulciano 60%, Sangiovese 40%. 14,0% alc. vol.

Fermentazione spontanea in tini di legno. Macerazione per circa 25 giorni. Affinamento in legno per 18 mesi.

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Private Red Session, Sommelier Social Club
I protagonisti della serata
Private Red Session, Sommelier Social Club
Dietro le quinte si preparano le sorprese…
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#1 Sessione Privata: bollicine

Private Sparkling Session, Sommelier Social Club

“Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi…”

Dai, c’è però un aspetto davvero divertente: ci si può sbizzarrire un sacco a mettere insieme i vini per la festa!

Allora, è andata così: questi giovini fanno uno squillo al SoSoClub per chiedere lumi su qualcosa di interessante da proporre al ricevimenti. Il focus è l’aperitivo di benvenuto, per accogliere gli ospiti col botto, e poi il brindisi finale, per salutarli con qualcosa di memorabile. In linea con quello che sarà quel giorno, va da sé!

Subito messi all’opera, ecco che fiutiamo la direzione Francia e andiamo a mettere insieme un parterre interessante e vario. Perché non sai mai quali gusti puoi andare a incontrare, quando raduni persone le più disparate… E poi anche perché – non è mica un segreto – la caccia al #maibanale ci entusiasma sempre! In sostanza: abbiamo organizzato una serata di assaggi, con bella schiera di calici e rilassate chiacchiere in libertà tutte intorno. Siccome poi ci piace tanto raccontare, vi scriviamo qui quel che s’è bevuto e tanto apprezzato.

Cremant d’Alsace 2017 – Pierre Frick

Pfaffenheim, un villaggio incastonato tra le ondulazioni dei vigneti d’Alsazia. Il vino spumante di uno dei più apprezzati pionieri della vinificazione naturale. Un uvaggio di Pinot Gris e Pinot Blanc, presente anche nella variante Auxerrois. Permanenza sui lieviti di dodici mesi e residuo zuccherino intorno a 1 grammo per litro.

Esprit Octavie – Champagne J. M. Goulard

Montagne de Reims, settore del Massif de Saint-Thierry. Un classico blend champenois, Chardonnay, Pinot Noir, Meunier, arricchito dall’utilizzo di un 25% di vini di riserva, di circa 25 anni d’età media. Malolattica svolta ed evoluzione sui lieviti per quarantotto mesi. Dosaggio Brut, pari a 7 grammi/litro.

Platine, Bouzy Premier Cru – Champagne Nicolas Maillart

Vallée de la Marne, villaggio di Bouzy. Blend di Pinot Noir, Chardonnay, Meunier con una aggiunta di vini di riserva pari al 50%. Fermentazione spontanea per il vino base svolta in legno nuovo, per circa una metà della massa. Malolattica non svolta. Più di 36 mesi sui lieviti. Dosaggio Brut, pari a 6 grammi/litro.

Héritage Blanc de Meunier – Champagne André Heucq

Vallée de la Marne, Meunier in purezza da vigne di trent’anni d’età media. Vinificazione in acciaio e malolattica svolta. Quarantotto mesi di evoluzione sui lieviti. Dosaggio Extra-Brut, inferiore a 4 grammi/litro.

Cremant d’Alsace Brut 0 14/15 – Domaine Julien Meyer

Nothalten, Alsazia: la base operativa del biodinamico intransigente e misterioso Patrick Meyer. Cuvée di Pinot Blanc e Auxerrois che riposa sui lieviti per sessanta mesi prima del degorgement. Come il nome suggerisce è un Pas Dosé.

Rosé Brut – Champagne Caillez-Lemaire

Vallée de la Marne. Un blend al 75% Meunier e 25% Pinot Noir. Cuvée elaborata con il 30% di solera rosé e il tocco di vin rouge per l’8%. Dosaggio Brut, pari a 7 grammi/litro.

Vuoi divertirti anche tu con la tua personalissima degustazione privata? Non esitare a contattarci: info@sommeliersocialclub.com

Indovina quale bottiglia è stata inserita per scherzo?
Nessuna aspettativa se non il giudizio dei sensi…
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Voillot amarcord

Domaine Joseph Voillot, Volnay

Quelle erano davvero quel che si dice delle mani grandi. Afferravano la bottiglia dal centro, senza guanti bianchi, senza nessuna leziosa leggiadria. Coprivano tutta l’etichetta. Il vino era versato in certi piccoli bicchieri, dei calici in effetti, con piede, stelo e tutto, ma talmente minuscoli da figurar bene al tè delle bambole. Nessun riguardo all’apparenza, nessun indulgere a raffinatezze stereotipate. Guardavo quell’uomo che ci aveva accolto oltre il cancello nei suoi pantaloni da lavoro e con quella felpa nera impolverata, gli scarponi sformati e infangati. Pensavo fosse un essere sorto dalla terra, con le sue grosse mani capaci di manovrare un trattore e legare teneri germogli, la sua stazza importante per apparire gioviale e incutere rispetto. Quello che faceva era lavorare la terra e produrre vino, al diavolo tutto il resto.

Capitavo alla dimora di Jean-Pierre Charlot un pomeriggio di novembre. Il nutrito gruppetto cui mi accompagnavo era partito da Milano proprio quel giorno e lì, il Domaine Voillot, sostava per la prima tappa di quella gita turistico-didattica. Il viaggio in Borgogna, il premio tanto ambìto al termine d’un percorso entusiasmante. Andavamo a vedere i luoghi, a incontrare le persone. A mangiare e bere, certo, a fare festa dentro un castello come bambini che entrano nelle loro favole preferite. Ricordo il tempo sospeso, le mattine terse e i pomeriggi che veniva buio presto, mentre ci affaccendavamo veloci avanti e indietro fra cantine e ristoranti. Il senso di tutto stava nell’idea della trasferta studio e, come i bravi studenti che eravamo stati una volta, ci impegnavamo meticolosi ad appuntare il detto e il degustato. E poi la sera, come al chiudersi dei cancelli del collegio, era invece fuga e baldoria e bicchieri più spessi. Quella estrema necessità di un quaderno sempre appresso, spauracchio diligente da riempire con serietà, sarebbe presto naufragata al cospetto della vita reale d’un vignaiolo di fama.

Il pullman bianco – così lo ricordo ora – ci portava chiassosi e ben speranti verso il paradiso. Come avrebbe faticato, al ritorno, così carico, stracarico, di casse e vetri, su quelle sue ruotine lente lente, i sedili bui e assonnati. Così ci portava, aprendo le prime porte all’aria frizzante di Volnay. Tutto era meraviglioso: il paesino di pietra silenzioso; il panorama pastello, di campagna e nuvole; il cielo e quegli alberi senza foglie nella piazza. E l’incontro, certo, come timorosi d’avventurarci senza una guida salda, con il maestro Armando, che direttamente da Lione arrivava a raggiungere impaziente la sua classe. Come ancora non sapevo che quella sua presenza lì fosse scintilla a tutto il meccanismo della giostra, come di lì a poco sarebbe stato investito cavaliere.

Il cancello stava giusto sull’altro lato della strada, nero e ferroso, sottile. Un campanellino elettrico, in fianco, con una targa sproporzionata sopra. “M. Voillot, proprietaire, vigneron”. Quella strana sensazione, sempre quando si visita una cantina storica e particolarmente lassù in Borgogna, di entrare per sbaglio in casa di qualcun altro. Come quando inizi a scoprire che il nome di un vino non rappresenta per forza il nome dell’uva con cui è fatto. Così, bussiamo da Voillot, ma ci accoglie Charlot, che è il genero di Joseph delle etichette, ma non lo stesso che ha fondato l’azienda, essendo vecchia di fine Ottocento. Le omonimie borgognone: un altro prezioso tassello dell’affascinante mosaico della storia regionale. L’elenco del telefono sempre appresso servirebbe magari ad evitare di spender denari per toma, anziché Roma. Ma qui, per lo meno, gli stessi nomi appartengono alla stessa famiglia. Una famiglia distesa sopra una decina d’ettari, tra Volnay e Pommard, Meursault e Beaune. La cantina sta a Volnay, praticamente in fianco alla più classica delle trattorie di fuori porta, un ristorantino che viaggia a spron battuto su bourguignonne e andouillette.

Una cosa che avrei riportato bene impressa nella testa – e che ancora racconto a mo’ di mistica scoperta – sarebbero certo state le pareti di quelle stanze sotterranee. Le scale strette, le volte basse, i disimpegni angusti in cui s’adagiavano matrone esauste di rovere, s’allungavano distese silfidi di vetro scuro. Il tutto ovattato, silenzioso sotto il telo ricamato della muffita umidità. La pietra dei muri suggeriva arrotondata delicatezza, anziché possanza geometrica. Le cataste di bottiglie assumevano aspetto di linee fluttuanti, anziché il rigore della precisione logistica. Tutto era soffice e antico. Le pareti erano rivestite di questa peluria medioevale, variegata nei suoi toni del bianco caldo, dei grigi, delle sfumature dal paglierino all’ocra. Chiazze che ora si allargavano, ora restringevano, ma senza soluzione di continuità arrotondavano spigoli, giravano nelle aperture e colonizzavano tutti gli spazi. Dove noi respiravamo, beati: e voglio credere adesso che parte di quella eternità sia frammista alle nostre cellule umane. I vini dormivano il sonno delle principesse fiabesche, evidentemente. Sotto i loro lenzuoli felpati stavano irriconoscibili e, al mio occhio nuovo del posto, perduti. Quale mappa provvidenziale doveva essere nascosta sotto il mattone traballante del pavimento, per dare modo di andare a pescare quel vigneto, quell’annata, quella bottiglia, così alla cieca? Non ricordo nessuna etichetta visibile, in quella luce smorta: né avrebbero potuto resistere agli anni e alle muffe, le scritte lì sotto. Mentre giravo lo sguardo in cerchio continuo e inarrestabile, estasiato, come si resta rapiti nell’osservare il fantastico, sentivo una voce (o erano più?) che guidava la visita. Ecco, quello che sta fuori non può stare dentro e quello che sta nel mezzo protegge ciò che è dentro da ciò che è fuori. Era lapalissiano. Le muffe – a chi affascinanti e a chi raccapriccianti – stavano a baluardo del vino. Così si spiegava. Un sottovuoto naturalissimo e prezioso svolgeva nella pratica l’attività che nei locali cosiddetti moderni e funzionali svolge il Napisan. Non avevo dubbi, non potevano essercene: quel luogo era quanto di più atavico, emblematico, archetipico si possa immaginare in fatto di “cantina” e allo stesso tempo materiale, tangibile, vero. Il paragone con bianche piastrelle lucide e igienizzate appariva oltraggioso.

Alfine uscimmo a incontrar le stelle: di rubino erano e liquide. Allineate a due a due, che i bevitori eran numerosi, stavano le bottiglie scure, slanciate parevano. Etichette di estrema semplicità, concedevano l’unico vezzo d’un corsivo, a indicazione geografica. La carta non era liscia: non potevo trattenermi dal passarci di sopra le dita, per sentirne la materia ruvida. I bicchierini, impugnatura grossolana che versa come fosse vino da tavola: il quale è, di fatto, se poi ci vogliamo arrovellare sugli abbinamenti. Ecco che in casa di Jean-Pierre, con la sua accoglienza umana, bonaria e sorridente, la discesa agli inferi prodigiosi, la sosta nella stanzetta angusta e spoglia, si disintegrava nella mia testa tutta l’impalcatura dei fragili e arroganti orpelli. Il vino va bevuto, questo conta. Ora non ha senso cercare di andare a recuperare nella memoria le differenze fra quegli assaggi: c’è di sicuro chi ne sa e ha fissato da qualche parte note degustative. Erano tutti buonissimi e un souvenir fra i tanti me lo sono concesso.

“Il nostro anfitrione, infine, visto che ebbe i calicetti tutti vuoti, si indaffarò per la stanzetta e s’industriò di cavarne, da un qualche àndito recòndito, un’anonima bottiglia, vetusta d’aspetto.”

Vecchia lo era davvero, quella bottiglia, se volevamo dar retta a quelle incrostazioni sul vetro, con tanto di residui di muffa mal ripuliti. Per tacer della polvere poi, quasi a bella posta spruzzata ad onorare i turisti. Che fosse davvero generosa emotività del momento o dulcis in fundo già studiato alla prenotazione nostra, comunque l’effetto scenico fu dei più applauditi. Era qualcosa dei primi anni settanta. Aperto e versato con somma disinvoltura. Radiografato, fiutato e degustato, noi; guardato, annusato e bevuto, lui. Tutte le domande che potevamo avere in mente trovavano modo di raggiungere Jean-Pierre, che non si schermiva, parlava, spiegava. Nessuna ostentazione mai, però, nessun piedistallo, nessun palcoscenico. Un essere sorto dalla terra per fare vino e per raccontarlo ai curiosi. E per berlo, più d’ogni cosa.

L’imbrunire svolazzava già sopra i tetti, la luminaria stupefacente imbiondiva già la facciata della chiesa. La gaieté fuira vos festins si de Volnay vous ne servez les vins!

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Chi si merita le tue bottiglie?

Volnay 1er Cru Les Caillerets 2012, Domaine Joseph Voillot

L’inizio del nuovo anno coincide inevitabile con la lista dei buoni propositi: ardimentosa operazione di risciacquo della coscienza, quando non onirica visione d’artificiali paradisi, in preda all’estasi dei brindisi finali. Voglio dare invece il la a questo 2021 con un atto di sincerità, una confessione che mi alleggerirà il cuore e al contempo andrà a smascherare quanti di voi quattro lettori la pensano come me: vedo già l’ondeggiare affermativo delle vostre teste sospiranti.

A chi concedete l’accesso alla vostra cantina?

Parlo qui in senso assolutamente ampio e non solo di vani immobiliari espressamente dedicati agli irraggiungibili spendaccioni: sentiatevi tutti coinvolti. Parlo, per quel che mi riguarda, di una semplice stanza che sta sotto il piano terra, colle pareti bianche e, a tratto a tratto, vagamente scrostate dall’umidità facilmente avvertibile, il pavimento non più in cemento ma rivestito di piastrelle scure, unica concessione al lusso; di un posto freddo d’inverno e più caldo d’estate, ancora illuminato da essenziali lampadine appese al loro filo – “rational nordic design” potrei sottolineare – nonostante ripetuti e vaghi e visionari progetti di finiture più precise, emozionali, definitive. Un posto, insomma, che si offre con l’utilità di mille possibili indirizzi, secondando dignitosamente il pallino dell’utente di sorta. Lo vedevo vestire quindi, in origine, i panni di un magazzino per ricambi di motociclette, per poi lentamente tramutarsi – non condividendo io il medesimo fervore motociclistico del suocero – in mezzo sgabuzzino e mezzo deposito di bottiglie e, via via, in definitiva cantina. La genesi furono quegli scaffali metallici, banali in ogni più comune garage, accoglienti quella decina di flaconi razzolati evidenziando coi cerchiolini le offerte sui depliant del super… E poi, a mano a mano che l’interesse aumenta, che la curiosità più si fa pressante e il desiderio diviene urgenza, ecco il raddoppiarsi, il triplicarsi delle mensole: ma né lo spazio, né l’occhio che vuole la sua parte sono già più soddisfatti e allora è l’avvento delle rastrelliere, belle di professionale aspetto, di legno e di metallo forgiate. Ancora, il gironzolare per lidi enoici porta vento creativo ed ecco comparire i bancali – Epal rigorosamente, che sono tutti uguali – all’uopo modificati e finanche, sospinte da afflati di certa ambizione, le ataviche pupitre, per gli spumanti capovolti. Alloggio in un’asola di un sostegno un termometro recuperato, colonnina di mercurio che dice cose varie in stagioni diverse e sempre mi fa agognare quelle stanze quasi vaticane, regolate d’umido e di clima, spaziose il giusto, logisticamente ineccepibili, stilisticamente perfette. Ma scender quei gradini è sempre entrare in uno spazio accogliente ed esigente: la cantina è una stanza mai finita, un campionato incomparabile allo sceglier colore di pareti o tende o piastrelle. Quei gradini li scendo solo; tutt’al più accompagnato, eventualmente raramente, da un qualche ficcanaso che deve ben sapere di dover vestire i compiacenti panni dell’ammiratore: o che se ne stia al piano terra se no! Per poi ammirare, attenzione, il cronico disordine e l’illuminazione provvisoria…

Nel mentre prende forma la mobilia, di pari passo si sviluppa un gusto, o forse è viceversa, chi lo sa: sta di fatto che il volantino ora è valido fondale al sacco del pattume. La cerca delle bottiglie segue nuove e più avvincenti tracce, si muove per incontri e per racconti: non più uno schematico backstage, ma un palcoscenico dal vivo, col riflettore acceso sull’artista che dà vita alla materia uva. Ed eccolo, il primo fondamentale punto, croce e delizia, ferro e piuma. Dal momento che l’amico e il parente riconoscono in voi gli appassionati, il vino diviene l’illuminazione a soccorso di ogni stressante momento di ricerca regali. Il dono: un semplice modo in cui le bottiglie scendono in cantina.

Gli amici e i parenti sono di partito vario: chi vi conosce bene e chi non vi conosce. A prescindere da quale sponda abitino, essi potranno comportarsi con voi in vario modo e con risultati tra il sorprendente e l’allucinante. Se alla porta si presenta chi è al par di me appassionato posso esser tentato d’aprire e fare entrare in maniera spontanea, ma non avrò comunque certezza che di vino buono si tratterà: devo sperare che la passione in questione sia condivisa e non contrastante su gusti e, sopra tutto, su produttori. Ma altrettanto facilmente potrebbe suonare il campanello uno spaventato: timoroso dell’entrare in casa di un saputo e quindi dell’insormontabile problema di come poter rimediare una bella figura con l’oggetto di tanta passione. La paura e l’insicurezza generano mostri e un vino acquistato unicamente per non lasciarci le mani vuote ad un invito sarà sicuramente fallace. Sul binario parallelo, però, mi accorgo corrono anche i conoscenti che scelgono altra via d’approccio, affatto contestabile e, anzi, vieppiù auspicabile e leggiadra. Son quelli che, consci di seguitar fedi diverse o di nulla sapere né importarsene del vino, non confezionano presenti enoici e bussano all’ingresso a mani libere. Evidentemente, non potranno che vincere.

Al di là della generosità altrui, il vero motivo per cui esiste una cantina in una casa è – va da sé – quello dell’essere alimentata dalla sete del proprietario, dalle ricerche a mo’ di segugio drogato, agli inciampi fortunati in sorprese preziose. L’acquisto è momento di sfaccettature variegate e inenarrabili: compulsivo o cadenzato, progettato o ad cazzum, curioso su propria linea personale o curioso sulla linea del sentito dire, Big Gatsby style o austerity-mode on, on line o in presenza, intimo o social addicted… L’acquisto prevede una conseguenza pressante, che trova risposte provvisorie secondando il sentire del momento, ma può presto divenire insopportabile: come organizzate la vostra cantina? L’ordine alfabetico? Per produttore o per vino? L’ordine regionale? I bianchi divisi dai rossi divisi dai rosati divisi dai frizzanti? Tutto insieme, ‘ndo cojo cojo? Bottiglie divise per denominazione? Una questione – mi rendo conto – incessante e sfibrante, che assomma tutte le possibilità di catalogazione: come organizzate la vostra libreria, la vostra raccolta di vinili, la vostra collezione di Mio Mini Pony?

Cantina, pupitre. Epernay, Champagne

Chi si merita le vostre bottiglie?

Infine, quando tutto sarà accolto, acquistato, sistemato, inventariato, l’epocale esame s’affaccerà alla nostra coscienza: quando aprirò queste bottiglie? Quando permetterò che l’occasione sia tale perché il vino agognato s’evapori dalla sua gelosa magione? E qui sta il secondo, fondamentale e inamovibile punto di tutta la faccenda sotterranea: l’avaro dottor Jekyll urla il suo formidabile rifiuto in faccia al signor Hyde, scialacquatore. Perché l’aver messo da parte mi fa sentir come formica tranquilla sulle sue riserve di viveri e quando il numero troppo s’abbassa suona inarrestabile il suono d’allarme, come il grido dell’elegante donna mondana che, dinanzi l’armadio aperto, strilli “Non ho niente da mettermi!”. C’è una vena, forse manco tanto sottile, di doloroso collezionismo intorno alle bottiglie che deposito in cantina, una cupidigia non per forza dedicata solo alle etichette più costose.

Il vino che arriva sulla spinta della semplice curiosità racchiude un senso prezioso di scoperta. A chi aprirò – e perché poi dovrei farlo – un vino che mi sono guadagnato in base ai miei gusti e alla mia ricerca? Un’idea che va spesso accompagnandosi al banalissimo “E se poi non piace?”: meglio quindi che me lo beva io in separata sede, quando sarà… Sul lato delle bottiglie regalate, invece, ecco che si chiamerà in causa un certo legame più o meno affettivo. Non sono costate niente, è vero, ma sono comunque messaggio della persona che donò e anche magari dell’evento a causa del quale arrivarono. Ecco, sorge l’idea che vadano consumate in una medesima occasione, quando possa trattarsi di compleanno, d’anniversario, di obiettivo generico raggiunto; oppure, aperte con la medesima persona, quando tornerà in visita. Il problema che alcune di queste bottiglie generano è il medesimo delle bottiglie che impolverano dietro l’angolo buio del sottoscala: le antiche cose di assoluta pochezza che s’erano ammucchiate – e fortunatamente poi dimenticate – all’epoca dei volantini del super. La ragione d’una non-apertura diviene allora qui una sorta di concessione di grazia al proprio e all’ospite palato: perché, dal momento che si viene riconosciuti quali appassionati, risulterà oltremodo sconveniente offrire vini industriali. Gli stessi che non ci si concede nemmeno in giorni semplici. E intanto stanno lì…

Il luogo è motivo di grande peso. A proposito di legami affettivi, se si ritorna con una bottiglia da un posto visitato è segno che il posto è stato apprezzato. Oppure, che in quel luogo non c’era niente di bello fuor che quel vino lì, dietro una vetrina: che avrà allora il merito di poter trasformare in prodigioso un posto da nulla. Il souvenir di un luogo visitato è feticcio potentissimo, tanto che ci spingeva, allora imberbi e ingenui, a portarci a casa statuine di dubbia fattura, scintillanti e mutevoli di colore; brutte assai, ma a tal punto totemiche da non azzardarci a gettarle, se non all’occasione di accidentale caduta e sbriciolamento. Figuriamoci, ora adulti e accorti, cosa può significare un vino, nettare prezioso agli dei! È sigillo d’un periplo compiutamente realizzato, d’una vacanza dagli indimenticabili toni, d’un luogo sulla terra in cui pezzetti di noi han piantato radici. Come puoi pensare d’aprire, per te e per gli altri, cotanto fato liquido?

Ma il momento è il motivo più forte di tutti. Il momento trascende il luogo, poiché l’acquisto può anche essere banale, per mezzo di brutale attrezzo elettronico. Il momento trascende la scoperta per curiosità, poiché l’acquisto è il traguardo d’una caccia o il decidersi dopo un racconto e un assaggio. Il momento è un’atmosfera in cui ci si trovava a parlare di vino, a bere vino e a volersi portare a casa quel segno – hic et nunc o per successiva ricerca – come un trofeo che dica “Tu c’eri! Io ne sono la prova!”. Ma il momento significa anche l’anno della vendemmia: ed è questo il monte più invalicabile, la quercia profondissimamente e più tenacemente radicata, del serpeggiante spirito collezionistico anti-stappatura. Appropriarsi di una bottiglia prodotta da vigne conosciute, da vignaioli ammirati e nell’anno di un evento che ci è pietra miliare di vita… E cosa potrebbe mai aver diritto a maggior spirito di difesa dal perverso desiderio di assaggio? L’anno giusto è il fuori-categoria, una selezione che merita il suo spazio a parte, la rastrelliera migliore della cantina: non valgono qui regole di ordine, di colore, di produzione. Non plus ultra!

Vero è anche – però e in definitiva – che il vino è coacervo di storie, sue proprie dei bevitori, che hanno un sol modo di rendersi palesi. In questo siam tutti d’accordo: il vino va bevuto!

Volnay 1er Cru Les Caillerets 2012, Domaine Joseph Voillot

E con i cerebrali ingranaggi che macinavano simili ragionamenti, nel dì di Capodanno scesi alla cantina per onorare il pranzo con questo vino e due amici. Souvenir d’un luogo, d’una scoperta e d’un momento: e perciò inarrivabile.

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Friuli, che stoffa!

Ovvero, cosa accade quando due menti frenetiche e avvinazzate – occhio che l’espressione è qui da intendersi in accezione completamente positiva: due menti avvezze al vino, use a conoscerlo e discorrerne, solitamente dopo adeguate degustazioni – si trovano.

La passione critica e divulgativa del sommelier Mario Gelfi incontra la curiosità implicita alla sete inestinguibile di Marco Pellegrini: ne scaturisce una serata d’eccezione, che vede recitare sul palcoscenico dei protagonisti i grandi vini friulani. Marco, appassionato da tempo di questa terra ruvida e testarda, condivide l’amicizia con alcuni nativi del luogo, esperti delle strade anche meno trafficate e delle cantine tra le più nascoste. Le sue periodiche scorrazzate tra Collio e Carso, tra Colli Orientali e Grave, trovano generosa realizzazione tra le mura amiche del Sommelier Social Club: sei coppie di vini, una degustazione abbinata per cercare di raccontare i vitigni, le storie di persone e le sensazioni che i vini – notevoli, quanto sperduti e a volte introvabili – racchiudono.


I Rosati

Pinot Grigio VS Refosco

Venezia Giulia IGT Pinot Grigio 2014, Radikon

Pinot Grigio 100%, 13% alc. vol.

Il bicchiere è davvero di uno spiazzante ramato, un’intensa buccia di cipolla vagamente virato all’aranciato. Velato, una torbidezza non trafitta nemmeno controluce: il colore è vivo di suo, senza bisogno di filtri, solari o polari che siano.

Al primo naso, vaghissima sensazione acetica, ma di una intensità che volge subitamente al dolce: immediato il rimando al Tradizionale Balsamico di Modena.

Poi, il naso si tuffa nella frutta matura, nella polpa gialla quasi in marmellata, con un tocco di agrume che rimanda alla prima nota acetica.

Una acidità fenomenale inonda la bocca e lascia fisicamente il segno lungo la lingua. La sapidità fa da valida spalla e rende vigoroso il sorso. Palato diametralmente opposto al naso.

Rosè di Refosco VDT 2012, Denis Montanar

Refosco 100%, 13% alc. vol.

Da uve rosse, ma praticamente ramato, con una punta di rosa più acceso: praticamente indistinguibile dal primo, se non di profilo, quando offre una più vivida sensazione di rosso. Velato, senza dubbio.

Il naso si sofferma su una prima nota di fermentativo, con un tocco di vegetale. L’idea successiva è di una certa terziarizzazione, portata da esalazioni chimiche di colla e smalto. Una vena che permane, traversando una corrente di dolcezza.

La bocca si rivela più sapida che acida, adornata da una veste di certa morbidezza: il gusto ha un aspetto decisamente più dolce rispetto all’olfatto. Il tannino è una sensazione leggera sulle gengive e saporita. Una vena acida a centro bocca chiude il finale.


I Bianchi

Ribolla VS Friulano

Venezia Giulia IGT Ribolla Gialla 2012, Dario Princic

Ribolla Gialla 100%, 13,5% alc. vol.

Il colore è quello dell’albicocca, quasi un bicchiere da passito di Pantelleria! Per forza di cose, gli anglosassoni devono inventarsi il termine “orange wine”: più immediato, ma meno profondo del nostro “vini macerati”.

Attimo di riduzione, al primo contatto: aria, aria, aria! Nota salmastra piuttosto evidente, insieme ad una dolcezza fruttata da polpa gialla. Nota speziata, pepato pungente.

Il primo impatto alla bocca è tannico. La nota di frutta secca, di noce, introduce poi alla sensazione ossidativa di fondo, costruita dai 35 giorni di macerazione in botti scolme. La successiva nota acida è notevole, aperta verso un finale sapido e lungo.

Collio DOC Friulano 2009, La Castellada

Friulano 100%, 14% alc. vol.

Giallo dorato sparato, limpido e cristallino. Davvero solare.

Primo naso tutto sparato su di una mineralità quasi sfacciata, sulla sapidità propria dei frutti di mare. Nota floreale di campo, fiori gialli selvatici.

Alla bocca, vero e proprio assalto di una debordante sapidità, che vira immediatamente all’amaro: erbe amare, da infuso alcolico, caramella di rabarbaro. Gli estremi arrivano a toccarsi, nel virare di questo amaro salino in sentore di caramello, di zucchero bruciato.

Muscolare, ppotente: una polveriera con la miccia accesa!


I Rossi

Schioppettino VS Pignolo

Colli Orientali del Friuli DOC Sacrisassi Rosso 2010, Le Due Terre

Schioppettino 60% Refosco 40%, 13% alc. vol.

Cuore fondo di sangue, impenetrabile con un’unghia porpora.

Il naso è piuttosto ritroso. Emerge una certa sensazione di dolcezza da frutto rosso maturo: ciliegia, fragola addirittura. Speziatura da pepe nero.

Il sorso si caratterizza di calore e nota etilica. Rotondità e morbidezza dalla lunga sosta in legno piccolo, con bella espressione di infuso di erbe amare.

L’intensa stoccata iniziale non sembra supportata dalla persistenza e il finale è un po’ corto.

Colli Orientali del Friuli DOC Pignolo 2011, Ronchi di Cialla

Pignolo 100%, 14% alc. vol.

Colore profondo, impenetrabile, con riflessi rubino.

Dai produttori che hanno recuperato il vitigno, andando a spulciare negli orti le piante una ad una, un Pignolo davvero giovane ed espressivamente riottoso.

Il naso rimanda alla cantina, all’ambiente chiuso, alle muffe dei muri. Un bicchiere che rimane fermo sulle sue decisioni iniziali per tutta la durata della degustazione.

L’impatto al palato è ruvido: un tannino che friziona ai lati della bocca, e sensazioni aromatiche che latitano.


Fuori Concorso

Merlot 2009, Paraschos

Merlot 100%, 13,5% alc. vol.

Un rubino intenso molto concentrato, impenetrabile.

Naso, di primo acchito subito salmastro: acqua di sentina, gusci di cozze. Successiva nota dolce a ricordo di frutti rossi.

Una bocca davvero fine, scorrevole e calda, su note accennate di spezzatura e di pepato.