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Voillot amarcord

Domaine Joseph Voillot, Volnay

Quelle erano davvero quel che si dice delle mani grandi. Afferravano la bottiglia dal centro, senza guanti bianchi, senza nessuna leziosa leggiadria. Coprivano tutta l’etichetta. Il vino era versato in certi piccoli bicchieri, dei calici in effetti, con piede, stelo e tutto, ma talmente minuscoli da figurar bene al tè delle bambole. Nessun riguardo all’apparenza, nessun indulgere a raffinatezze stereotipate. Guardavo quell’uomo che ci aveva accolto oltre il cancello nei suoi pantaloni da lavoro e con quella felpa nera impolverata, gli scarponi sformati e infangati. Pensavo fosse un essere sorto dalla terra, con le sue grosse mani capaci di manovrare un trattore e legare teneri germogli, la sua stazza importante per apparire gioviale e incutere rispetto. Quello che faceva era lavorare la terra e produrre vino, al diavolo tutto il resto.

Capitavo alla dimora di Jean-Pierre Charlot un pomeriggio di novembre. Il nutrito gruppetto cui mi accompagnavo era partito da Milano proprio quel giorno e lì, il Domaine Voillot, sostava per la prima tappa di quella gita turistico-didattica. Il viaggio in Borgogna, il premio tanto ambìto al termine d’un percorso entusiasmante. Andavamo a vedere i luoghi, a incontrare le persone. A mangiare e bere, certo, a fare festa dentro un castello come bambini che entrano nelle loro favole preferite. Ricordo il tempo sospeso, le mattine terse e i pomeriggi che veniva buio presto, mentre ci affaccendavamo veloci avanti e indietro fra cantine e ristoranti. Il senso di tutto stava nell’idea della trasferta studio e, come i bravi studenti che eravamo stati una volta, ci impegnavamo meticolosi ad appuntare il detto e il degustato. E poi la sera, come al chiudersi dei cancelli del collegio, era invece fuga e baldoria e bicchieri più spessi. Quella estrema necessità di un quaderno sempre appresso, spauracchio diligente da riempire con serietà, sarebbe presto naufragata al cospetto della vita reale d’un vignaiolo di fama.

Il pullman bianco – così lo ricordo ora – ci portava chiassosi e ben speranti verso il paradiso. Come avrebbe faticato, al ritorno, così carico, stracarico, di casse e vetri, su quelle sue ruotine lente lente, i sedili bui e assonnati. Così ci portava, aprendo le prime porte all’aria frizzante di Volnay. Tutto era meraviglioso: il paesino di pietra silenzioso; il panorama pastello, di campagna e nuvole; il cielo e quegli alberi senza foglie nella piazza. E l’incontro, certo, come timorosi d’avventurarci senza una guida salda, con il maestro Armando, che direttamente da Lione arrivava a raggiungere impaziente la sua classe. Come ancora non sapevo che quella sua presenza lì fosse scintilla a tutto il meccanismo della giostra, come di lì a poco sarebbe stato investito cavaliere.

Il cancello stava giusto sull’altro lato della strada, nero e ferroso, sottile. Un campanellino elettrico, in fianco, con una targa sproporzionata sopra. “M. Voillot, proprietaire, vigneron”. Quella strana sensazione, sempre quando si visita una cantina storica e particolarmente lassù in Borgogna, di entrare per sbaglio in casa di qualcun altro. Come quando inizi a scoprire che il nome di un vino non rappresenta per forza il nome dell’uva con cui è fatto. Così, bussiamo da Voillot, ma ci accoglie Charlot, che è il genero di Joseph delle etichette, ma non lo stesso che ha fondato l’azienda, essendo vecchia di fine Ottocento. Le omonimie borgognone: un altro prezioso tassello dell’affascinante mosaico della storia regionale. L’elenco del telefono sempre appresso servirebbe magari ad evitare di spender denari per toma, anziché Roma. Ma qui, per lo meno, gli stessi nomi appartengono alla stessa famiglia. Una famiglia distesa sopra una decina d’ettari, tra Volnay e Pommard, Meursault e Beaune. La cantina sta a Volnay, praticamente in fianco alla più classica delle trattorie di fuori porta, un ristorantino che viaggia a spron battuto su bourguignonne e andouillette.

Una cosa che avrei riportato bene impressa nella testa – e che ancora racconto a mo’ di mistica scoperta – sarebbero certo state le pareti di quelle stanze sotterranee. Le scale strette, le volte basse, i disimpegni angusti in cui s’adagiavano matrone esauste di rovere, s’allungavano distese silfidi di vetro scuro. Il tutto ovattato, silenzioso sotto il telo ricamato della muffita umidità. La pietra dei muri suggeriva arrotondata delicatezza, anziché possanza geometrica. Le cataste di bottiglie assumevano aspetto di linee fluttuanti, anziché il rigore della precisione logistica. Tutto era soffice e antico. Le pareti erano rivestite di questa peluria medioevale, variegata nei suoi toni del bianco caldo, dei grigi, delle sfumature dal paglierino all’ocra. Chiazze che ora si allargavano, ora restringevano, ma senza soluzione di continuità arrotondavano spigoli, giravano nelle aperture e colonizzavano tutti gli spazi. Dove noi respiravamo, beati: e voglio credere adesso che parte di quella eternità sia frammista alle nostre cellule umane. I vini dormivano il sonno delle principesse fiabesche, evidentemente. Sotto i loro lenzuoli felpati stavano irriconoscibili e, al mio occhio nuovo del posto, perduti. Quale mappa provvidenziale doveva essere nascosta sotto il mattone traballante del pavimento, per dare modo di andare a pescare quel vigneto, quell’annata, quella bottiglia, così alla cieca? Non ricordo nessuna etichetta visibile, in quella luce smorta: né avrebbero potuto resistere agli anni e alle muffe, le scritte lì sotto. Mentre giravo lo sguardo in cerchio continuo e inarrestabile, estasiato, come si resta rapiti nell’osservare il fantastico, sentivo una voce (o erano più?) che guidava la visita. Ecco, quello che sta fuori non può stare dentro e quello che sta nel mezzo protegge ciò che è dentro da ciò che è fuori. Era lapalissiano. Le muffe – a chi affascinanti e a chi raccapriccianti – stavano a baluardo del vino. Così si spiegava. Un sottovuoto naturalissimo e prezioso svolgeva nella pratica l’attività che nei locali cosiddetti moderni e funzionali svolge il Napisan. Non avevo dubbi, non potevano essercene: quel luogo era quanto di più atavico, emblematico, archetipico si possa immaginare in fatto di “cantina” e allo stesso tempo materiale, tangibile, vero. Il paragone con bianche piastrelle lucide e igienizzate appariva oltraggioso.

Alfine uscimmo a incontrar le stelle: di rubino erano e liquide. Allineate a due a due, che i bevitori eran numerosi, stavano le bottiglie scure, slanciate parevano. Etichette di estrema semplicità, concedevano l’unico vezzo d’un corsivo, a indicazione geografica. La carta non era liscia: non potevo trattenermi dal passarci di sopra le dita, per sentirne la materia ruvida. I bicchierini, impugnatura grossolana che versa come fosse vino da tavola: il quale è, di fatto, se poi ci vogliamo arrovellare sugli abbinamenti. Ecco che in casa di Jean-Pierre, con la sua accoglienza umana, bonaria e sorridente, la discesa agli inferi prodigiosi, la sosta nella stanzetta angusta e spoglia, si disintegrava nella mia testa tutta l’impalcatura dei fragili e arroganti orpelli. Il vino va bevuto, questo conta. Ora non ha senso cercare di andare a recuperare nella memoria le differenze fra quegli assaggi: c’è di sicuro chi ne sa e ha fissato da qualche parte note degustative. Erano tutti buonissimi e un souvenir fra i tanti me lo sono concesso.

“Il nostro anfitrione, infine, visto che ebbe i calicetti tutti vuoti, si indaffarò per la stanzetta e s’industriò di cavarne, da un qualche àndito recòndito, un’anonima bottiglia, vetusta d’aspetto.”

Vecchia lo era davvero, quella bottiglia, se volevamo dar retta a quelle incrostazioni sul vetro, con tanto di residui di muffa mal ripuliti. Per tacer della polvere poi, quasi a bella posta spruzzata ad onorare i turisti. Che fosse davvero generosa emotività del momento o dulcis in fundo già studiato alla prenotazione nostra, comunque l’effetto scenico fu dei più applauditi. Era qualcosa dei primi anni settanta. Aperto e versato con somma disinvoltura. Radiografato, fiutato e degustato, noi; guardato, annusato e bevuto, lui. Tutte le domande che potevamo avere in mente trovavano modo di raggiungere Jean-Pierre, che non si schermiva, parlava, spiegava. Nessuna ostentazione mai, però, nessun piedistallo, nessun palcoscenico. Un essere sorto dalla terra per fare vino e per raccontarlo ai curiosi. E per berlo, più d’ogni cosa.

L’imbrunire svolazzava già sopra i tetti, la luminaria stupefacente imbiondiva già la facciata della chiesa. La gaieté fuira vos festins si de Volnay vous ne servez les vins!

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AZIENDA AGRICOLA LA BASIA

C’era un silenzio che sapeva assolutamente di natura.
E io guardavo il filare davanti, nella conca, e il resto del vigneto ordinato; poi gli alberi sparuti e ancora filari, sugli appezzamenti più in là, rettangoli spaiati in altezza e distanza; ancora curve e alberi, poi il bosco sul monte all’orizzonte. Tutto di verde vestito, scintillante o rabbuiato, intenso, scuro o metallico; verde di prato irlandese primaverile e verde lontane che sfumava d’azzurro. Il profumo del sole caldo mi stava intorno alla testa e tutta quella luce mi illuminava uno scenario non vasto, ma sorprendentemente articolato pensando che, di fatto, era solo di verzura e qualche tronco composto. Era proprio lo spettacolo della terra lasciata libera, gli alberi, o compresa ed educata all’ordine, i filari.
Sentivo lo sguardo di Giacomo spiarmi, lì dall’angolo, e sorridere, quando voltandomi gli dicevo “Che spettacolo!”. Mi pareva di cogliere allora sul suo viso l’orgoglio di un’anima attaccata alla propria terra, quando incontra un qualcuno che condivida lo stesso pensiero di bellezza su quella natura. In quell’impressione di un secondo realizzavo appieno i discorsi appena fatti sul modo di lavorare e di condurre l’azienda attraverso l’agricoltura, l’allevamento, la vinificazione. Tutto parte da un sentimento, imprescindibile: l’amore per il proprio territorio. Lì stanno le radici.
Che poi si viaggi avanti e indietro per l’Europa e San Francisco, è un risultato, non una partenza. L’obiettivo centrato, mi pareva di cogliere, è quello di aver assecondato il desiderio di una persona cara e averlo fatto proprio. Il desiderio era legato a queste colline, al vigneto su cui la generazione appena precedente spendeva una certa fatica e alla voglia di volerlo rivedere risplendere rigoglioso.
La Basia [con l’accento sulla prima a] è proprio il calice da cui si bevono i sogni. Scoprivo lì come si pronuncia il nome, mentre Giacomo indicava il terreno a conca e diceva “Come dalle vostre parti si dice bàsla”. Il contenitore fondo, la zuppiera, il recipiente con dentro una quantità di cose… Ce n’erano tante, davvero, lì da guardare, di cose. I sassi del terreno morenico e i grappoli spargoli del rebo; le reti contro la grandine e il prato dell’erba medica; gli olivi sparsi a filari, le pannocchie piccole del granturco locale, l’acqua che scorreva sorgiva; i cavalli e i cavalieri, la tavolata d’amici, il panorama sul lago, le bottiglie aperte e versate. I sorrisi delle persone e il discorrere del vino come di un amico lì seduto con noi.
C’era da vedere, alla Basia, la passione e il cuore.