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Il primo corso a domicilio

La sera d’autunno ti predispone agli incontri.

Il fresco, là fuori, con i bagliori rossi dei semafori e le biciclette parcheggiate al palo della luce, ti spinge a camminare sorridente e pensare che manca poco all’incontro con amici e altre persone nuove. Lo zainetto con le bottiglie è il mio prezioso carico didattico. Appoggio i cartoni dei bicchieri vicino all’inferriata d’ingresso e scatto una foto: come quelle polaroid stinte, che una volta riprendevano una strada, la schiena di un passante, il fanale di un’auto che passa.

Stasera si comincia: lezioni a domicilio, per incuriosire altre persone al mondo del vino. Per dire che questo è ciò che mi piace fare e perché frasi del tipo “tanto non ci capisco niente” devono lasciare il tempo che hanno trovato…

Strette di mano e presentazioni e tavola che si va ad imbandire con la luce dei calici trasparenti. L’atmosfera di casa è sempre impagabile per sentirsi a proprio agio, per far sì che tutti abbiano la voglia di proporre un’idea, di mettersi in gioco con un azzardo. Il vino, poi, farà il resto: offrirà lo spunto dei commenti, regalerà via via l’entusiasmo della chiacchiera e farà stare bene tutti, come sempre quando è sincero.

Ci siamo dimenticati di fotografare i calici pieni, da contrapporre all’inizio immacolato dei vetri vuoti… Siam rimasti rapiti: tante cose da voler scoprire, tanto da voler raccontare.

PINOT NERO METODO CLASSICO BRUT, 2014

Torre degli Alberi

Bollicine, assolutamente, per dare inizio alla festa!

Un bel calice giallo dorato e una effervescenza [perlage? Siamo in Italia, dopotutto, no?] fine con belle bollicine numerose. Sentori classici di panetteria, certo, ma già un bel naso che ammicca al floreale, ai petali gialli e al nettare polveroso e abbondante. Il sorso, del resto, è pieno, carico di sostanza: una sorta di pane in cassetta liquido. C’è la crosta e la ginestra, nelle sensazioni retronasali; c’è la polvere di lievito e la polpa di un frutto zuccherino. L’assaggio riempie la bocca, la carbonica è fresca e giustamente stuzzicante, l’acidità invade le arcate e il palato e il tutto è equilibrato dalla carnosità del Pinot, dall’estratto di bucce comunque scure.

KERNER, 2014

Società Agricola Zanotelli

“Secondo me viene dal Trentino” è una dichiarazione che già la dice lunga sul livello della classe! E così è, ovviamente. Veste limpida, tra il paglierino e il giallo oro. Il naso è subito rapito dalle note del terreno, più che da sentori aromatici: a bicchiere fermo, quasi un accenno, una nota appena, di terziario, di goudron. Poi spazzata dalla prima rotazione, ma persiste il discorso minerale, il sasso, che lascia spazio per indovinare una certa polpa matura, là sotto. Si affaccia il fruttato, in abito giallo e maturo, la pesca, il melone addirittura… Evolverà ancora, con tempo e temperatura, per approdare finanche al tropicale, alla maracuja.

La bocca, di pari passo, ci conferma la mineralità e accende quelle sensazioni amare di sali, quel grip a centro lingua delle fave di cacao tostate. La polpa è fisicamente presente: è un sorso quasi masticabile, pieno, molto ben giocato sulle note di morbidezza, che prendono il sopravvento sull’acidità esuberate e spiazzano un po’ chi ricordava le vinificazioni altoatesine.

DOLCETTO D’ASTI, 2015

Società Agricola Pianbello

Il bicchiere della convivialità, di fatto. Il vino quotidiano per tradizione langarola, ma che ripudia ogni banalità. Bel rubino vivo, limpido e di riflessi porpora acceso. Profumi che son tutti del bosco in penombra, con i frutti scuri della mora, il rosso del lampone e un accenno di vegetale ancora verde che ci rimanda a qualche bacca ancor da maturare.

E, infatti, eccolo il sorso a sorprenderci un po’: un ingresso di tendenza morbida apre poi il sipario ad un tannino rampante, un gusto decisamente gastronomico che richiede carne e ciccia. Belli i richiami al fruttato da marmellata che il naso ci ispirava, con una energia acida che sostiene l’assaggio.

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Bianco Borgogna

La Borgogna d’ampio respiro va in scena questa sera al Sommelier Social Club di Nerviano. Cinque vini selezionati per rappresentare le proprie zone di elezione, i cinque terroir che compongono il mosaico della Grande Bourgogne, spesso confusa con la sola esile striscia della Côte d’Or. Chablis, Côte de Nuitse Côte de Beaune, Côte Chalonnaise, Maconnais: ogni terra il proprio alfiere per raccontare le diverse geografie e le diverse ampelografie, di fama mondiale quanto – più spesso di quanto si creda – misconosciute o addirittura ignorate.

Le strutture dei vini, la matrice comune, la storia della Borgogna o delle singole realtà: tutto gioca nel render complicato stilare un ordine, perché sempre si vorrebbe lasciare il vino migliore per ultimo… ma quando l’ottimo è la media?

In barba ad ogni convenzione accademica, la serata non procede per vendemmie successive, né per gradi alcol ascendenti: Borgogna, culla delle AOC, ci dà l’estro di incedere per denominazione crescente. Regionale, Village, Premier Cru: ecco la parata dei protagonisti.

BOURGOGNE BLANC AUX AVOINES 2013

Domaine Jean Fournier

Una frusta fatta di ardesia acuminata. Se il buongiorno si vede dal mattino, qui la faccenda si fa subito molto spessa e ce ne andremo a casa con la lingua a pezzettini… Ho pensato, appena assaggiato un sorso del dirompente Pinot Blanc – con un saldo di Pinot Beurot – del giovine Laurent, attuale conduttore del Domaine Jean Fournier.

Una staffilata minerale, si diceva, che mette subito le carte in tavola riguardo la matrice da considerare quando si parla di Borgogna e, specialmente, di bianchi di Borgogna. Un naso che non ammette dubbi sulla provenienza, tutto dedicato al sasso, alle schegge di lavagna, al piretro finanche, con quella salva di petardi che ci si porterà avanti fino a fine serata, almeno un paio d’ore dopo. La bocca segue con medesima cadenza e non lascia scampo: il sale è ovunque e scalda e riempie di sapori amari che rimandano al tostato delle fave di cacao. Un finale lunghissimo, più sottile, sempre sulla scia minerale e sapida.

BOUZERON 2013

Domaine A. et P. De Villaine

Un momento di tregua. A voler contrastare la veemente vitalità giovanile di Laurent Fournier, ecco che i signori De Villaine – aristocrazia vitivinicola delle più ammirevoli al mondo – ci concedono quasi il lusso di un salotto d’epoca, con il loro Bouzeron. Rese per ettaro ridotte all’osso per un vino che nasce da uve poste in altura lungo i pendii e che beneficia in questo modo di una particolare concentrazione aromatica, inusuale e anzi rara per l’Aligoté.

Un naso calmo, morbido, giocato su delicate note di polpa gialla sopra un impianto iodato che non ci vuole far dimenticare la matrice marina anche di questo angolo borgognone nascosto.

Il sorso scalda la bocca, in modo misurato e rapido, la proverbiale acidità delle uve è presente in maniera gentile e la sapidità del terroir sostiene bene la rotondità importante di tutto l’impianto. Davvero un calice molto equilibrato, saporito e dal finale piuttosto persistente, sui toni lievi del frutto e di piccoli fiori gialli.

VIRÉ-CLESSÉ QUINTAINE 2015

Guillemot-Michel

Alfieri di una agricoltura che non sia altro che natura, Pierrette, Marc e Sophie distillano un nettare che è la quintessenza della spontaneità: il calice che avrei di certo indicato dovendo puntare il dito sul vino più “naturale” – o come diavolo lo si voglia in ogni modo chiamare, in questi tempi di comunicazioni impazzite – tra quelli in degustazione.

Da questo assaggio entriamo nelle vigne di Chardonnay. Con passo lento, per non perderci nulla della bellezza: che è tanta, in questo vino. Il sostrato comune alla Borgogna è subito lì a raccontarci del mare, delle rocce: un naso pieno e piuttosto contenuto, non ha gli slanci pirotecnici di Fournier, né le sedute morbide di De Villaine, quanto un equilibrio nuovo fatto di calore, che rimanda alla campagna fiorita di selvatici e alla sabbia, e di freddo, che rimanda al mondo minerale di sotto. Il sorso sembra essere più denso, con una complessità mirabile in cui è difficile distinguere tratti di natura che non siano il terroir puro e semplice: sa di tante cose, Quintaine, ma sa solo del posto da cui arriva.

CHABLIS 1ER CRU BUTTEAUX 2014

Domaine Pattes Loup

Altissima l’aspettativa, quando la posta in gioco è Chablis. Per quanto mi riguarda, assolutamente mantenuta. Un altro giovane di idee rampanti, di mano sapiente, di occhio comprensivo e riconoscente: Thomas Pico ha convertito il padre alla biodinamica e noi appassionati ad una nuova fede nello Chablis.

Il portone è pressoché sprangato. Naso ritroso, quasi troppo introverso per poter dire alcunché: c’è bisogno di pazienza, null’altro, perché la caratura è indubbia e non dobbiamo pensare al vino con i tempi cui siamo abituati a pensare alle connessioni social… Eccola, infine, la matrice che emerge, sottotraccia come un magma bollente al riparo di una lastra impenetrabile: lì dentro c’è il minerale grezzo, c’è il terroir che fa sentire le sue vampate di scisto. Un sorso, infine. Che bordata! La bocca non ha nulla di timido a dichiararsi caldissima, acida e salina, in una esplosione che scalda ben oltre l’alcol contenuto nel vino. L’attacco è sorprendente quanto repentino, per lasciare spazio al riconoscimento delle diverse componenti: l’acidità pungente sui bordi; il sale minerale che grippa sul palato coi suoi sentori di tostato, di cacao sbriciolato; la struttura che crea una qual minima rotondità dove poter assaporare la polpa di qualche frutto immaginifico.

Quale discrepanza incredibile tra olfatto e gusto, che ci racconta del mondo sotterraneo che si è creato nelle epoche geologiche con lo schiacciamento del fondale e l’evaporazione del mare, e del rivolgimento successivo della crosta terrestre, quando i fossili delle conchiglie sono tornati in superficie a dar dimora a queste viti.

PULIGNY-MONTRACHET 1ER CRU LA GARENNE 2011

Domaine Larue

Quando c’è da chiedere permesso, si chiede permesso, non c’è altro. Avvicinarsi allo smeraldo del Montrachet è sempre causa di certa emozione e, sebbene guardato da certa distanza, la sua luce verde irraggia di magia anche l’opera di Denis, Bruno e Didier Larue, una famiglia dedita alla propria terra d’elezione.

Chardonnay, non c’è dubbio. Chardonnay borgognone, ancora meno. Inutile sforzarsi di indagare e spulciare e utilizzare una lente d’ingrandimento maggiore: una volta individuati questi due capisaldi, quello che il naso rileva è il legame inscindibile tra il terreno e il bicchiere, l’uva come veicolo di terroir e non come frutto. Si torna all’inizio – con i richiami lampanti alla matrice minerale che sottende tutte le degustazioni – verso il primo calice assaggiato: ma con quanta grazia maggiore, con quanto equilibrio sottile e perfetto. La pietra bagnata, quel delicatissimo tostato da caramello di bella pasticceria e un accenno appena di lattico, forse prodromo di una più marcata e voluttuosa burrosità degli anni a venire.

Il sorso è proprio quello Chardonnay, fatto di eleganza e finezza, con rimandi assolutamente corrispondenti a quanto esposto dal naso: bocca sorpresa da bella acidità, poi scaldata dalla struttura del vino, quindi pulsante di sapidità espressa e, infine, accarezzata da un velo morbido di setosità, di crema di latte.

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Coulée de Serrant: la verticale

LA VERTICALE COULÉE DE SERRANT

AOC Savennieres-Coulée de Serrant

2013 / 2012 / 2011 / 2010 / 2001 / 1997

Possiamo riscontrare fondamentalmente due tipi di annate per lo Chenin Blanc, alla Coulée: l’annata dominata dalla lucee l’annata dominata dal calore.

L’annata dominata dalla luce dà vita ad un vino molto strutturato, molto femminile, dal carattere decisamente introspettivo: 2013/ 2001.

L’annata dominata dal calore genera un vino molto estroverso, potente, di carattere mascolino: 1997/ 2012.

Le vendemmie 2011 e 2010 rappresentano una situazione equilibrata tra questi estremi.

La muffa nobile che ha attaccato per qualche giorno i grappoli delle vendemmie 2010 e 2001, si è resa responsabile di una certa ossidazione delle uve: questa caratteristica dona al vino un rilievo supplementare, alcune volte incompreso.

Al termine di ogni vendemmia si procede alla vinificazione delle rispettive selezioni, che saranno accorpate solo al termine delle fermentazioni.

Il lavoro in cantina prevede semplicemente il controllo settimanale della volatile, senza nessun altro intervento. La fermentazione prosegue per almeno 3 mesi, senza nessun controllo di temperatura: “la fermentazione è una febbre, quindi qualche giorno di temperatura sopra i 25°C non è mai un problema!

L’imbottigliamento prevede un minimo utilizzo di zolfo di origine vulcanica: del resto, lo zolfo non può essere qualcosa di nocivo, se di origine naturale e, per di più, in piccolissime dosi!


La degustazione prende avvio sui toni un po’ mistici del rispetto e del timore: certo non capita nel quotidiano di avere a che fare con sei annate di uno dei migliori vini di Francia – e di riflesso, del mondo. I calici son riempiti, gli occhi ci si abbeverano ancor prima delle labbra: non una sfumatura tende a cedere ad un qualsivoglia comun denominatore cromatico, ogni vendemmia è un colore a sé, un vino a sé. L’olfatto, poi, non può esser di nessun altro aiuto nel tentativo di uniformare: ogni vendemmia è un corredo di profumi a sé, un vino a sé. E se ne porterà avanti la differenza per tutta la serata, finché ogni bicchiere non sarà vuoto e, ancora, non avrà comunque smesso di parlare. Il palato è poi l’estremo tentativo di dar traduzione in senso tangibile ad una creazione di puro terroir: la matrice del suolo, elemento sì ravvisabile in sottotraccia attraverso i sei calici, interpretata con liriche originali da ogni annata in maniera personalissima.

2013

La via è chiusa. Il calice è muto, indifferente agli umani desideri di scoperta e godimento.

Ma quanto vivo, dopo incalcolabili rotazioni del liquido! Sotto quella calma insensibile si avverte la tensione vitale del minerale, dell’agrume, del fiore quasi di camomilla. Bocca, invece, da cannone: polposa, calda, una sensazione alcolica quasi da vermouth.

Non è un caso se le indicazioni di Nicolas Joly indicavano in 4 giorni il tempo di apertura prima della degustazione…

2012

Un approccio soave, un afflato botritizzato molto delicato con richiami intensi di iodio.

La bocca è subito avvolta dalla dolcezza, ma repentina incombe la bordata di sale e acidità: un boato di toni minerali e di calore che si affievolisce spedito e via via si fa sempre più sottile in un finissimo e interminabile allungo verso chiusure sfumate di frutta a polpa gialla.

Col tempo… la scorza d’arancia, il candito, il distillato del Cointreau. Forse anche un che di petali di rosa. Si concede certa dolcezza ulteriore nel finale.

2011

Primo acchito netto di lattico e caffè, una crema da bar.

L’assaggio è immediato e drittissimo, una lama di acidità che si sfuma eccezionalmente nel carattere tostato dei beaux amersdella polvere di caffè. Il sorso chiude su di una sorprendente sensazione di nocciola.

Col tempo… ancora, ancora sale! La mineralità estrema e quel caffè, quella nocciola spalmati in giro come tessere esplose…

2010

Il naso indugia sul calice mentre la mente richiama quell’indicazione del produttore: botrytis… Ma l’olfatto è quasi più ossidativo che muffato: da ricondursi, allora, a quella maturazione impeccabile delle uve, tanto ricercata da Joly? E’ qui il discrimine tra l’ossidazione dell’acino in vigna e l’ossidazione del vino in cantina?

Il calore del sorso si avverte soltanto alla gola, mentre la bocca è pacata, accarezzata da un alcol da meditazione, da cognac, da spiriti di uva: dolcezze da panettone in alambicco.

Col tempo… il naso si attesta al passito, con la polpa gialla in vista, ma ben amalgamata alla costante acidità. Poi, subito dopo, è ancora un’altra cosa, con termini più iodati in primo piano…

2001

Vaghe ombre di similitudine con il calice precedente, questo naso virato su tendenze ossidative, ma con un fondo già di frutta passita, di uvetta.

Lo speziato emerge, la liquirizia e l’anice, una sfumatura orticola di salsina di pomodoro. Altra carica di spezie alla bocca, con lo zafferano anzitutto e morbidezza del burro e leggera sapidità unita ad una vena secca da Marsala vecchio. Spiazza il finale un po’ corto, ma che si traduce, in realtà, con l’assottigliamento progressivo di un sorso iniziato un po’ grasso e untuoso, quasi, verso un’uscita nettamente salina.

1997

Vent’anni e non sentirli…

Naso suadente. Anice, agrume candito, spunto lattico che quasi tende al sudore.

Bocca zuccherina e pepata insieme, la sensazione stupefacente di un distillato di spezie. Il calore alcolico è compostissimo, amalgamato nella bellissima rotondità del caramello e dell’uva stramatura.

Col tempo… emerge chiara la nota di caffè, meraviglioso decoro di quella nota lattica ancora avvertibile. Infinito nella sua complessa eleganza.

 

Quanto a parlare di una classifica o anche solo di preferenze è cosa assai dura. Ogni calice cangiante nei tempi di una rotazione, non permette affatto di stabilire priorità di sorta: un attimo si decide una sequenza, ma all’assaggio successivo tutto è stravolto e ricostruito.

Ho ammirato la straordinaria e cesellatissima architettura di un 1997, inafferrabile, quanto apprezzato la ritrosia e l’introspezione di un 2013 che denota potenza dietro un portone socchiuso. Ho stimato la spacconeria da hidalgo spagnolo di un 2011, signore del caffè e delle vie del sale, quanto mi sono innamorato dell’afflato dolce ed equilibrato di un 2012, chef di pasticceria. Ho contemplato gli sprazzi infinitesimi di somiglianza di un 2010 e un 2001, legati da una molecola d’ossigeno, ma separati da galassie di dolcezze di frutta e di sapidità di spezie…


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Nicolas Joly e la Coulée de Serrant

Chemin de la Roche aux Moines, Savennières, Valle della Loira, Francia.

Un indirizzo ben presente sulla rubrica di ogni appassionato di vini francesi. Di vini in generale… di vini veri. Siamo praticamente sopra il grande fiume, poco a sud ovest di Angers, guardando verso Nantes e l’Oceano Atlantico, dove sfociano le acque e dove anche s’infrange l’ultima denominazione della Loira, il Muscadet.

Il vigneto della Coulée de Serrant è stato impiantato dai monaci Cistercensi nel corso del XII secolo [1130] ed è sempre stato coltivato come vigna: il millesimo 2013, dunque, rappresenta la 883esima vendemmia consecutiva. Il piccolo monastero, che fa ancora parte della proprietà, è stato classificato monumento storico.

Qualche centinaio di metri più in là, invece, adiacenti alle vigne si possono osservare le rovine dell’antica fortezza Roche aux Moines, che difendeva il tratto della Loira e dove il figlio di Filippo II Augusto, il futuro Luigi VIII sconfisse gli inglesi di Giovanni Senza Terra, figlio del Cuor di Leone: correva l’anno 1214…

In questi luoghi carichi di storia si possono rinvenire un po’ dappertutto le vestigia di un lontano passato celtico, romano e carolingio.

Clos de la Coulée de Serrant costituisce una denominazione controllata essa stessa, monopolio di proprietà della famiglia Nicolas Joly, estesa su una superficie di 7 ettari.

Posizionate su pendii molto ripidi dominanti la Loira, le vigne sono impiantate a Chenin Blanche hanno un’età media che varia tra i 35 e i 40 anni. Le più vecchie datano anche a 80 anni fa e forniscono il materiale per poter ottenere nuovi piedi di vite, conservatori dell’originalità del luogo. Il vigneto è coltivato a mano o con l’uso del cavallo e consente una resa di 20/25 ettolitri per ettaro, laddove sarebbe consentito arrivare a 40 hl/ha.

Il suolo è molto spesso, tra i 20 e i 40 centimetri in media e insiste sopra un fondo di scisto rosso, obliquo e quindi perfettamente drenante. L’esposizione delle piante è Sud/Sud Est.

La vendemmia – meglio sarebbe dire le vendemmie –  si effettuano in tre o fino a cinque passaggi, in un periodo dalle tre alle cinque settimane, in modo da ottenere la maturità più intensa possibile e gli acini più intaccati dalla botrytis. Le viti impiantate – fatto essenziale – non sono cloni, ma frutto di una selezione massale: la fioritura si verifica, quindi, naturalmente nell’arco di più settimane.

Secondo Joly, lo Chenin e il Riesling sono i due vitigni che si rivelano appieno se vendemmiati dopo la comparsa di muffa nobile, un elemento che non si presenta in ugual misura tutti gli anni. Maturando, gli acini passano dal verde chiaro al giallo, poi al giallo scuro e quindi si coprono di Botrytis Cinerea. Il vino che ne risulta sarà giallo oro, perfino con riflessi bruni: un colore divenuto oggigiorno raro nei vini bianchi e che non dovrà essere confuso con l’ossidazione. Il raggiungimento di questo stadio di maturità rappresenta una perdita importante di rendimento, ma al tempo stesso consente una concentrazione capace di far risaltare la mineralità del luogo, nelle sue componenti di scisto, quarzoe silex.

Soltanto una agricoltura sana, che sia biologica o biodinamica, consente di attendere una maturazione così avanzata senza rischio di compromettere il gusto delle uve. Uve con lo stesso grado di maturità, nel medesimo luogo, nel giro di una settimana producono sapori differenti: una raccolta più precoce permetterebbe di avere sensazioni improntate alla freschezza, aromi di frutta che si ottengono molto facilmente e che, quindi, non sono rappresentativi di una denominazione. La complessità si ottiene solo con una maturità piena.

La totalità del vigneto risulta in regime biodinamico dal 1984, dopo quattro anni di conversione. Nessun prodotto chimico di sintesi viene più utilizzato da quella data: acaricidi, pesticidi, diserbanti, nitrati, trattamenti sistemici… Un minimo di zolfo e di poltiglia bordolese [rame e calce] vengono utilizzati ogni anno, nella misura di 10/15 kg/ettaro all’anno: il rame, però, è limitato a 2 o 3 kg massimo, perché responsabile di un rallentamento della vita del suolo. Tutti i terreni sono inerbiti.

La vinificazione avviene in botti da 500 litri, di cui mai più del 5% rappresentato da legno nuovo. La fermentazione prosegue per svariati mesi. La produzione si attesta mediamente intorno alle 20000/25000 bottiglie annue.


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LA NOTTE DELLE BOTTI: Costamasnaga, Ines Beer BQ

Splende il sole, o quasi, tra qualche nuvola sparsa sul cielo di Costamasnaga. Ines Beer B-Q, giovane locale specializzato nelle lente cotture all’americana, apre i battenti per ospitare un evento di estremo quanto attuale interesse, con l’organizzazione di The Good Beer Society… No, non si tratta del giorno lungo ventiquattr’ore del circolo polare artico: siamo davvero nella Brianza lecchese, ma La Notte delle Botti cala a mezzogiorno, o giù di lì. La scusa per recuperare qualcosa al volo da una delle spine già approntate e andare a curiosare il menù con sommo languorino, è bell’e servita. La spedizione condotta in solitaria prevede l’armamento tipico del caso: il telefono per poter fotografare, postare, organizzare; il taccuino e la matita, per non lasciarsi sfuggire i pensieri; buona volontà di assaggiare e, dulcis in fundo, rilassatezza per ascoltare i racconti dei protagonisti… Del resto, ad essere in due si sa quanto si possa raccogliere di più, tanto d’orecchi quanto d’occhi e, soprattutto, bere tendenzialmente il doppio. Altresì vero che sono proprio i soci i primi bidonari dell’ultimo secondo: mi godo allora la mia gita, con un itinerario dettato da mero gusto soggettivo.

BIRRIFICIO DEL DUCATO, Soragna [PR]

ENTRENEUSE, Barrel Aged Tripel, 9.4%

Ovverosia, come partire col botto! La base è una Belgian Strong Ale che visita poi una barrique di Brunello di Montalcino per una dozzina di mesi, con inoculo di brettanomiceti… Il risultato è un bicchiere di una complessità e di una eleganza spaventose. Molto ben equilibrati gli aromi fruttati dalla Tripel e i sentori di cuoio e di polvere di legno dalla barrique.

LUNA ROSSA 2017, Sour Ale con Amarene, 8.0%

Un dejà vu, ma in realtà quanto differente! A quanto pare è proprio vero che i lieviti sono esserini vivi e si accomodano e si assestano col tempo all’interno della “loro” cantina, dando origine ad una flora quantomai autoctona. Così questa versione 2017 della Luna mi appare più amalgamata di un assaggio di un paio d’anni fa: l’amarena molto presente, l’acidità bella espressa senza occhieggiare troppo all’acetico.

BIRRIFICIO RURALE, Desio [MB]

SIMPHONIA, Gueuze, 6%

“Con tutto il rispetto”, una simil-gueuze… Birra a fermentazione semi-spontanea, per via dell’aggiunta dell’eccesso fermentativo derivato da un esperimento con la Seta, in cui si sono prodotti dei mostri incredibili, a quanto pare – e che non vedo l’ora di provare, evidentemente! L’assaggio mi ha dato l’idea di un perfetto “Lambic per neofiti”, per chi si incuriosisce del mondo acido, ma ne risulta ancora un po’ spaventato: tutti i sentori emblematici, dal lattico, al citrino, all’umido di cantina, dicono presente, ma con una leggerezza inusitata.

BARREL WORKS 1.0, Barrel Double IPA, 9.5%

Si parte da una birra già sostenuta, la Scarliga, la più potente della batteria Rurale. Assaggio. E penso: LA Birra passata in botte! Scarsa la componente sour, invero non ricercata, accennata unicamente da un indizio lattico in sottofondo, tutto il bicchiere è giocato sulla forza, sul corpo e sull’eleganza della combinazione: densità, calore alcolico, complessità del legno e aromi di carruba, speziato di pepe nero, vegetali secchi…

BIRRIFICIO SANT’ANDREA, Vercelli

FOG BARREL, Witbier, 4.5%

La versione barricata della storica Fog, la Wit da cui emergono i classici sentori di arancia amara e coriandolo trasformati in una versione “vintage”, levigati dal legno. Praticamente piatta, conserva una beva facile e rivela una maggiore corposità rispetto alla birra originale, con un finale piacevolmente balsamico.

RIOT BARREL, Belgian Strong Ale, 8.6%

Un’altra birra di gamma proposta in versione barrique: la Belgian Strong Ale incontra il legno di Renzo Losi per dare vita ad un sorso potente, sostenuto da sentori intensi di quercia, corteccia, polvere di falegnameria. Note altalenanti di vegetale verde e scuro di fava fermentata. Bel finale pieno su note di miele di castagno.

BIRRIFICIO LARIANO, Sirone [LC]

MAREN, Oak Aged con Amarene, 5.4%

Malto Pils e malto di frumento a costituire la birra base da passare poi in botti di rovere che hanno accolto per diversi passaggi vini quali Chianti o Barolo. Schiuma praticamente assente, lo sguardo è tutto attratto da un colore rosso carminio saturo, da scala Pantone, praticamente impenetrabile. L’idea di una birra piatta è smentita dalla frizzantezza sottile e piacevole che si avverte sulla lingua. I sentori, al naso come al palato, sono inequivocabilmente sul frutto, sull’amarena. Finale leggermente sapido e senza tracce di sour.

DRACO’S CAVE, Affinatore, Lissone [MB]

CRAZY BLONDE PEACH, Belgian Strong Ale, 5.8%

In collaborazione con Railroad Brewing Co., una Belgian Strong Ale affinata tre mesi in botti di rovere. L’aggiunta delle pesche la rende un incredibile aperitivo: sentori delicatissimi di frutta gialla al naso e ripresa del gusto della pesca al palato, ma con un approccio talmente delicato da non risultare mai invadente sulla componente maltata, luppolata, speziata della birra.

FUNKY’N’FUNNY, Saison, 5.7%

Ricetta propria per questo bell’esempio di Saison dal netto impatto stilistico: i lieviti apportano tutto il loro carattere speziato, fruttato, pepato… L’assaggio risulta molto rotondo, con una predominanza decisa di nocciola, mentre l’usuale secchezza è smorzata e levigata dal legno in toni leggermente più dolci.

BIRRIFICIO ITALIANO, Lurago Marinone [CO] / KLANBARRIQUE, Rovereto [TN]

WILDEKIND, Belgian Ale, 7.7%

Ispirazione belga che piacevolmente mi sorprende, per una ricetta di Agostino Arioli… Bellissimo calice carico di oro, praticamente impenetrabile. Naso ipnotizzato da sentori di frutta gialla e perfetta corrispondenza al palato con un rimando evidente alla pesca. Carbonica contenuta e piacevole, legno in profondità, come un’idea che avvolge il tutto e lo ammorbidisce, senza lasciare segni evidenti di presenza.

FLOS ALBA, Weizen, 4.8%

Una birra di frumento acida, preparata con l’aggiunta di estratto di bergamotto: non saprei pronunciarmi in favore delle sole scorze, per via di un balsamico non propriamente esplosivo, quanto piuttosto verso il frutto intero, per un amaro di agrume più percettibile. Il frutto si presenta al naso, in una veste giallo oro molto satura e questo fruttato di scorze e l’amaro che potrebbe essere agrume come luppolo mi portano ad un Sauvignon del nuovissimo mondo…

MARZARIMEN, Italian Grape Ale

Fermentazione sulle bucce di uve Marzemino per produrre un naso assolutamente vinoso! Il bicchiere è di un rosso sangue impenetrabile, affascinante e senza schiuma di sorta. I sentori rimandano al carattere di un vino ritroso a svelarsi: note terrose, vaghissimo accenno acetico, frutto scuro, col tempo… Del resto, quel 25% di uva fa sentire tutto il suo peso. Una IGA davvero improntata all’enologia, con una componente watery che al palato, però, quasi svuota un po’ troppo l’attesa creatasi… Sicuramente da valutare paragonata ad un calice di originale Marzemino…

BLACK BARRELS, Torino

GOSE, Gose, 5.0%

Impatto olfattivo di polvere e muffa. C’è il malto, lì sotto, qualcosa di germanico… ma quanto lontano! Corrispondenza al palato sui toni di cantina, di ambiente chiuso e poi l’approssimarsi dell’atteso sale, ma trasfigurato in un ambiente completamente marino, quasi paludoso: salmastro, salamoia, acqua di sentina. Una birra tutta marinara, un’idea fulminante di confronto col vino Timorasso…

YELLOW DOCTOR, Bassa Fermentazione, 5.5%

Il passaggio in barrique suscita spontaneamente l’idea di una complessità particolare, di una bevuta da cercare di capire… Quanto di più lontano dall’esperienza della Yellow Doctor! Una birra davvero imprevedibilmente semplice, che si beve con tranquillità pur rivelando chiaramente ad ogni sorso una natura diversa: sentori di corteccia, di vegetale e una insospettabile anima lager.

 

Il passaggio in botte è un elemento di fascino inusitato e atavico. Rimanda indubbiamente alla birra dei secoli bui, all’immagine di immani vichinghi che pescano dai barili con boccali pantagruelici. La sorpresa, dopo svariati assaggi, sta invece nel cogliere quanta finezza ed eleganza possa celarsi dietro quel momento di affinamento: quasi che il ritorno alle origini produttive sia, al contrario, una proiezione verso un futuro di pulizia e sapori nuovi. Potenti o leggiadre, dense o scorrevoli, acide o fruttate, tutte le birre assaggiate propongono una identità sempre interessante e, nonostante sia ovvio il filtro del gusto soggettivo, soluzioni sempre valide.

Ragionavo, lungo la strada del ritorno, tra i rimandi delle note, dei sentori, degli aromi, i suoni ancora delle voci e dei racconti, sull’aspetto puramente economico della faccenda. Non è come approcciare un banco di degustazione del vino, questa storia delle degustazioni della birra. Forse non sono nemmeno degustazioni, nell’ottica dell’organizzatore dell’evento… Come più d’uno trovo a sottolineare, la birra cerca sempre quel distacco da qualsivoglia accademismo e ripudia ogni tentativo di ingessatura, che ne vogliono rappresentare la distanza stilistica dal mondo enologico. Le porzioni versate, infatti, elemento lampante di differenziazione, non erano ascrivibili ad un mero momento degustativo, quanto ad una vera e propria piccola bevuta: un bicchiere che permette un assaggio, un secondo e un terzo e consente di accomodarsi un momento per prendersi il tempo di scrivere, conversare e poi tornare a finire la propria birra. In tutto ciò, il pagamento in gettoni – che facevan tre euro a bicchiere – ci sta tutto: quattro o cinque birre assaggiate fanno quasi una serata in birreria, al soldo. Ma se l’intento è quello di procedere con certa serialità, per poter portare a casa un più ricco bottino di esperienze, ecco che il quadro si fa tendenzialmente drammatico e per quel mosaico di degustazioni messe insieme in giornata (peraltro non esaustivo di tutti i partecipanti), il portafogli assottiglia un po’ sfiancato. Forse prevedere differenti spillature per differenti contributi?

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